La scienza e la teologia, discipline e saperi diversissimi, almeno in apparenza. Toccate, secondo le ricostruzioni odierne, da interessi e questioni sostanzialmente estranei tra loro. Concezioni e pregiudizi difficili da estirpare, purtroppo. L’umano agogna il sapere con tutto il suo essere, protendendosi verso una conoscenza che è tanto fine quanto mezzo per certificare un’esistenza autentica e veritiera. L’uomo non si accontenta di risposte semplici, desidera risolvere e addomesticare le infinite contraddizioni del suo tempo, provando a scrutare l’orizzonte infinito dell’eterno.
Assistiamo a una crisi radicata e perdurante del cogitare. Non lo si può negare. Cerchiamo di comprenderne alcune ragioni, seguendo un agile libretto di Jean Daniélou, teologo francese del secolo scorso, intitolato La crisi attuale dell’intelligenza (Ed. Paoline, Roma 1970). Nello scritto, vengono anticipati temi e prospettive oggi ampiamente realizzati, giunti a maturazione, quali la crisi della cultura universitaria (cfr. pp. 7-8), le capacità pressoché infinite del progresso scientifico e le conseguenze etiche scaturanti (cfr. p. 8), nonché l’emergere di un diffuso senso di angoscia e di vertigine, soprattutto tra i più giovani, in quanto “minacciati nella loro volontà di felicità, di libertà, di indipendenza” (p. 9).
Daniélou contesta apertamente “una concezione della cultura che sia solo un lusso, un gioco, un bene puramente gratuito” (pp. 9-10), sottolineando come la società, la civiltà, abbia bisogno certamente di tecnica e di mezzi (cfr. p. 10), ma anche “di una ispirazione, che possa dare un senso alle sue prodigiose risorse e metterle veramente a servizio della condizione umana” (p. 10).
L’epoca del Nostro ribolle di quel fermento di contestazione tipico degli anni Sessanta e Settanta, un momento di crisi e di cambiamento caratterizzato, a detta dello stesso, da tre precisi nodi problematici: il rapporto tra scienza e cultura; l’affermazione del relativismo e del soggettivismo; la caducità delle strutture. Procediamo con ordine e rigore.
Il ripensamento del rapporto tra scienza e cultura, coevo al teologo francese, solleverebbe numerose questioni di non secondaria rilevanza, favorendo, paradossalmente, una fiducia incondizionata nel progresso scientifico: “Data l’efficacia prodigiosa che la scienza manifesta oggi, potrebbe esservi il pericolo, da una parte, di riporre in essa una fiducia incondizionata per la soluzione di tutti i problemi e di pensare che sul piano della spiegazione il metodo scientifico, la scienza […] potrebbe dar ragione di tutto, di modo che essa sarebbe il solo mezzo serio d’investigazione per gli spiriti d’oggi” (p. 14). L’epoca scientifica pensionerebbe definitivamente la metafisica e le sue pretese di dogmatizzazione del mondo, facendo suo, tuttavia, il medesimo progetto totalizzante e definitorio, rivolgendo la propria attenzione all’uomo, con il dichiarato intento di liberarlo “dalle servitù cosmiche e dalle servitù sociologiche” (pp. 14-15), realizzando “una specie di visione mitica” (p. 15). Il problema che scaturisce da tali premesse è serio, come sottolinea il cardinale transalpino, cioè quello di trattare tutte le vie dell’intelligenza, quali la filosofia, la religione e l’arte quali forme prive di rigore intellettuale, riconducibili alla sfera del sentimento (cfr. p. 15). La scienza guarderebbe tutto e tutti dall’alto verso il basso, “con un certo fondo di disprezzo e col riposto pensiero che uno spirito veramente lucido deve essere capace di superare questo bisogno di consolazione per attenersi a certezze che abbiano veramente il rigore del metodo scientifico” (p. 16). L’uomo le appartiene, è suo, e non è disposta a condividerlo con le cariatidi del tempo antico. Daniélou non è disposto ad accettare serenamente questa sostituzione, rifiutando che il mistero possa essere oggettivato, sminuzzato e calcolato, trattato da mero dato scientifico: “Se esiste nell’uomo una interiorità, una personalità, un segreto, un mistero che non possa mai essere attinto con metodi limitati a ciò che possiamo chiamare l’insieme dei condizionamenti all’interno dei quali si esercita la nostra libertà, ma che non determinano mai la nostra libertà poiché essa appartiene a un altro ordine” (pp. 18-19). La libertà è il limite insuperabile che nemmeno la scienza potrà mai varcare.
Strettamente collegato al primo tema risulta essere il secondo, quello dell’avvento del relativismo e del soggettivismo. Una certa mentalità scientifica opererebbe una progressiva e metodica squalifica di ogni forma di verità assoluta, lasciando libero campo soltanto alle opinioni, prive di universalità. Ogni pretesa di verità è fonte di intolleranze: la scienza ha, pertanto, il compito e il dovere di eliminarla sul nascere. Il teologo francese esprime chiaramente questo concetto: “In particolare, questa è molto spesso la reazione di uomini di scienza: essi non dicono che non esiste altro se non ciò che il metodo scientifico può attingere, ma essi trovano difficoltà a chiamare verità, a parlare di rigore a proposito di cose che ad essi sembrano essenzialmente irraggiungibili con gli strumenti di cui dispongono. E tutto questo allora apparirà come puramente soggettivo, come qualcosa che in fondo ciascun uomo si dà liberamente come progetto: è la maniera in cui ogni uomo costruisce se stesso secondo la propria visione delle cose, quella visione delle cose che ha per lui un carattere strettamente individuale e che perciò non può essere imposta agli altri” (pp. 21-22). La libertà si riduce alla sincerità, alla coerenza tra le proprie convinzioni personali e la condotta manifestata. Sembrerebbe una cosa buona e notevole, ma finirebbe con il ripiegare l’umano all’interno di se stesso, rigettando qualsiasi riferimento altro e trascendente: “Ciò mette radicalmente in questione la nozione di verità come un qualcosa che abbia valore al di fuori di noi e che dovrebbe imporsi ad ogni spirito, onde regolare l’esercizio della sua intelligenza secondo norme valide” (p. 22). Una posizione inaccettabile per un cristiano, una difficoltà, una violenza perpetrata nei suoi confronti. Il cristiano, tuttavia, si sente anche combattuto tra il dovere della testimonianza e lo spirito scientifico del suo tempo: “Ora questo, per un cristiano, pone un problema molto grave, perché è evidente che l’affermazione che esiste una verità della condizione umana ha un senso e non un altro, che esiste un orientamento e un destino umano, è un elemento essenziale della sua fede. Di qui la difficoltà che sperimentano oggi molti cristiani presi tra il sentimento di dover testimoniare qualcosa che ad essi sembra vero, e il sentimento, che essi condividono con molti dei loro contemporanei, che ciò che importa è innanzitutto la sincerità di un uomo” (pp. 23-24). Il pericolo, anche per il credente, è di abbracciare una concezione titanica dell’umano, autocelebrativa, ma vuota, sterile, priva di qualsiasi riferimento etico e morale. L’uomo che vuole spingersi oltre ogni limite danza con la morte, sperimenta l’abisso dell’anomia, distrugge se stesso e la civiltà che vorrebbe edificare. Daniélou prende a prestito l’immagine sartriana della nausea, onde esplicitare quel fastidio che si prova di fronte a una libertà senza limiti e regole, un conato che riattiva quel salutare “bisogno di ritrovare un certo ordine oggettivo nel quale inserirsi per sfuggire al continuo confronto con una libertà che non ha ragione di darsi un oggetto piuttosto che un altro” (p. 28).

Nel terzo punto, quello riguardante la caducità delle strutture, Daniélou ribadisce l’importanza dell’esistenza, all’interno di una società, di precisi valori, in grado di animare un certo numero di istituzioni (p. 29). Le strutture sarebbero i valori riflessi del tempo, cioè “espressioni di una data società” (p. 29) con “un carattere puramente storico” (p. 29), quindi non permanente (cfr. p. 29). L’uomo è sempre alla ricerca di nuove strutture, attraversando fasi di conferma a momenti di contestazione e destrutturazione: “Oggi noi cerchiamo nuove strutture, che saranno quelle della società di domani. Ma queste strutture sono degli insiemi e delle totalità, ed è per questo che il passaggio da una struttura ad un’altra implica la contestazione totale di ciò che rappresentava lo stadio precedente. In questo senso non c’è alcun elemento permanente nei valori, si tratti dei valori filosofici o dei valori religiosi; non vi sono che strutture successive le quali corrispondono finalmente e soprattutto alle infrastrutture sociologiche e che sono innanzitutto il riflesso di queste” (pp. 29-30). Il marxismo scientifico è alla base di queste conclusioni: non esiste nessun valore assoluto e permanente, tutto è riflesso e sviluppo di logiche economiche e politiche. Daniélou è forse d’accordo con queste posizioni? Siamo di fronte a un teologo marxista?
La questione, ovviamente, è decisamente più complessa e articolata. Lo studioso francese prende evidentemente spunto da queste riflessioni per affrontare il problema, la reale emergenza del suo tempo, cioè “il problema molto vivo della politicizzazione dell’Università” (p. 31).
“Ogni Università è necessariamente politica” (p. 31), in quanto “l’insieme della cultura impartita in una Università riflette essenzialmente una certa società” (p. 31), così asserisce il Nostro. Da queste premesse ne scaturirebbe logicamente un’amara e preoccupante conseguenza: l’università borghese starebbe per essere sostituita da quella proletaria, democratica e socialista (cfr. 31). Tutto il sapere sin qui raccolto dovrebbe essere modificato e sostituito, in quanto espressione di una precisa visione politica ormai decisamente superata. Nel concreto: “Il fatto per esempio che alcuni difendano il latino, altri le scienze umane, o un certo modo di concepire la filosofia e la storia, è ciò che determina più o meno la qualificazione politica dell’Università. Ci sarebbe una maniera “borghese” di concepire la storia, la letteratura, la filosofia e anche la religione e ci sarebbe un’altra maniera che sarebbe la maniera socialista. Il vero problema oggi sarebbe di sostituire la maniera socialista di pensare tutte queste cose alla maniera borghese che sarebbe stata quella di ieri. Voi vedete che questo pone un problema molto grave, di sapere cioè se è vero che ogni posizione filosofica, letteraria, storica, religiosa, è in realtà essenzialmente il riflesso di un atteggiamento politico” (pp. 32-33).
Daniélou contesta apertamente queste conclusioni, rifiutando il tentativo perniciosissimo di fare della politica l’unico metro di giudizio e di valore del reale, riducendo la cultura, la fede, ogni forma libera di espressione dell’umano a un riflesso del pensiero politico dominante (cfr. pp. 33-35): “Il riferimento ultimo non è mai il socialismo o il capitalismo, la democrazia o l’oligarchia, o un altro riferimento qualsiasi del medesimo ordine” (p. 35). La posizione di Daniélou potrebbe riassumersi in questo modo: l’Università deve interrogarsi circa la natura delle strutture politiche ed economiche, ma non deve farsi dettare l’agenda, non deve dimenticare come il servizio alla cultura debba contemporaneamente mantenersi libero di fronte ai condizionamenti storici e aperto rispetto all’esistenza di criteri e valori superiori, giudicanti le strutture medesime (cfr. pp. 35-36). La cultura è incontro tra immanenza e trascendenza, tra storicità ed eternità: l’Università è auriga chiamata a mediare tra spinte difformi e convergenti, tra destrieri parecchio testardi e recalcitranti.
Daniélou procede nella sua analisi riconoscendo “il prodigioso slancio dell’intelligenza attuale” (p. 37), ma affrettandosi, immediatamente dopo, a sottolineare l’esistenza, nel medesimo momento, di un malessere, un interrogativo, da rivolgersi soprattutto alle persone di scienza: “È troppo chiaro che la responsabilità che provano i grandi scienziati, quelli che sono all’avanguardia della ricerca e delle sue applicazioni, fa sentir loro che la scienza e le sue applicazioni tecniche per se stesse non risolvono tutti i problemi. Essi sentono che c’è un momento in cui la tecnica incontra altre questioni, particolarmente a livello di ciò che tocca il destino dell’uomo” (pp. 37-38). La scienza e la tecnica possono molto, ma non dovrebbe essere concesso loro di decidere su tutto, facendo proprio l’insegnamento dell’enciclica Humanae vitae: “D’altra parte, quali che siano gli altri problemi gravissimi che pone questo testo, l’enciclica Humanae vitae tocca un problema di incontro tra la tecnica e ciò che sfugge alla tecnica, in quello che l’amore umano ha di trascendente rispetto a tutto ciò che la tecnica stessa può risolvere. Il problema della legittimità dell’applicazione tecnica vi incontra dei problemi umani fondamentali. Non dico che l’enciclica risolva tutti i problemi, certamente no, ma prendo questo esempio come un caso in cui è evidente che siamo di fronte ad una interferenza tra i problemi della tecnica e i problemi di una dimensione umana di cui non accetteremo mai che la tecnica possa disporre liberamente, e che è il mistero profondo e sacro dell’amore umano” (pp. 38-39).
Le questioni sin qui sollevate conducono l’autore al nodo centrale del suo scritto, cioè la crisi dell’intelligenza, tema sviluppato nella seconda parte dell’opera in questione.
L’uomo di oggi, secondo il Nostro, è alla ricerca di risposte che fatica a trovare, manifestando così a se stesso una crisi evidente dell’intelligenza (cfr. p. 45). L’uomo appare disarmato appena “va oltre le affermazioni riguardanti i settori scientifici, tecnici e altri” (p. 45). La cultura di oggi appare distruttiva, critica, anarchica, incapace di elaborare proposte positive, smarcandosi, in definitiva, da qualsiasi serio tentativo di descrizione e di comprensione “di ciò che è l’uomo, del senso della sua esistenza, dei valori che devono essere quelli di una società” (p. 45). Rimane soltanto un vuoto, un senso generale di stanchezza e persino un certo disgusto. Come superare tale condizione? Come uscirne?
Il percorso delineato dall’autore muove da un tentativo di definizione dell’oggetto specifico dell’intelligenza: “la dignità fondamentale dell’intelligenza […] è la possibilità di cogliere l’essere” (p. 47). Le scienze positive sono un ottimo punto di partenza per avviarsi alla comprensione della realtà (cfr. p. 48). Agli scienziati bisogna riconoscere l’immane sforzo di “raggiungere […] tutto ciò che può essere misurato, contato, sperimentato scientificamente” (pp. 48-49), di fronte a una materia che oppone un’ostica resistenza ad una sua descrizione obiettiva e piena. Vi sono, tuttavia, questioni, realtà, oggetti di studio e di conoscenza che non si piegano al metodo scientifico, rispondendo, in parte o in tutto, a logiche epistemologiche e gnoseologiche differenti: “Il fatto che non si trova l’uomo con le scienze umane non prova affatto che l’uomo non esiste. Il problema è tutto qui. Si sapeva bene che l’uomo non può essere conosciuto con questi metodi, in ciò che lo costituisce nella sua specificità di uomo. Il metodo scientifico come tale non può certamente attingere ciò che è, direbbe Pascal, di un altro ordine” (p. 50).

L’esperienza ci racconta di certezze non verificabili, di limiti e freni che poniamo liberamente al nostro agire, di una sapienza che precede l’umano, inverando i singoli saperi: “Nelle grandi esperienze umane, nell’esperienza dell’amore umano, nell’incontro della morte, ci sono delle evidenze fondamentali in cui tocchiamo i limiti di ciò che possiamo spiegare o organizzare da noi stessi, e che sono tuttavia carichi d’una certezza ancor più piena e più densa, perché concernono cose essenziali. Questo c’induce a dire che esiste un settore essenziale che sfugge, e che la scienza non può spiegare da se stessa, e che per noi è il problema fondamentale, quello della relazione tra le persone. Voglio dire che in fondo ciò che è più importante per me è di poter penetrare nel cuore degli altri, è quello scambio che tocca il suo vertice nell’amore, che esiste nell’amicizia, ma anche nella comunicazione interiore a tutti i livelli. È evidente che siamo in un ordine di cose assolutamente altro da quello della scienza, un ordine di cose che è essenzialmente quello del mistero delle persone, e questo mistero è qualcosa di cui io non posso impadronirmi. Perché la scienza non s’impadronisce che degli oggetti, e la persona non è, né mai potrebbe essere, un oggetto” (pp. 55-57).
L’uomo resta espressione di una trascendenza che lo supera, lo sorpassa, portandolo all’esistenza. Per tale ragione dell’uomo non si può disporre liberamente come si fa con una cosa, con un mero e semplice oggetto: “Non c’è niente di più abominevole che lo strappare a un essere il suo segreto con la violenza. Questo appare come un attentato a ciò che costituisce il fondo stesso della dignità di una persona” (p. 57). La società, l’esistenza umana, si poggia sull’amore, sulla parola data, sull’onore, sull’impegno e sulla fedeltà (cfr. p. 57). Daniélou ribadisce la dignità ontologica di queste certezze “che sono nel loro ordine altrettanto valide di tutte le certezze della scienza” (p. 58). Non vi è qui, a mio avviso, nessuna volontà di delineare la realtà in modo dualistico e divisivo, ma il semplice desiderio, da parte dello studioso, di salvaguardare e proteggere un “resto” dal delirio di onnipotenza tipico di certuni ambienti scientifici. Si mette in salvo il fanciullo per proteggere l’umanità intera da se stessa.
Daniélou si spinge oltre descrivendo la crisi dell’intelligenza come una crisi di fiducia (cfr. p. 58). L’intelligenza sarebbe gravata da una certa “impotenza a far credito […] forse una delle più gravi malattie dell’uomo contemporaneo” (p. 59). L’uomo si è fatto diffidente perché troppe volte è stato ingannato (cfr. 59). Diffida dei giornali, della pubblicità, dei discorsi, della parola, quest’ultima divenuta ai suoi occhi, e alle sue orecchie, “più uno strumento di potenza che non la espressione della verità” (p. 59). Questa condizione getta ombre su qualsiasi forma di autorità, di competenza, di sapienza, ma anche sulla pretesa veritativa rivendicata dalla fede (cfr. pp. 59-64).
Torniamo alla domanda posta in precedenza: come uscirne? Dove risiede la risposta positiva del teologo francese? Dove trovare un appiglio per evitare di sprofondare nelle sabbie mobili dello scientismo, della politicizzazione, del nichilismo, del relativismo e dello sconforto più cupo e profondo?
La soluzione del Nostro è incredibilmente attuale e moderna. Daniélou si appella convintamente alla responsabilità degli intellettuali, oggi eccessivamente refrattari “dinanzi alla possibilità di conseguire una verità, o almeno di progredire verso di essa, cioè di affermare che la nostra intelligenza è qualcosa di abbastanza grande e di abbastanza degno per poter conseguire anche ciò che oltrepassa il dominio propriamente scientifico e che tocca ciò che è fondamentale per noi, la persona degli altri e la persona di Dio” (pp. 65-66). Non basta adoperarsi per il progresso scientifico e tecnologico. È troppo poco. L’intellettuale deve impegnarsi di più, deve esporre con rigore e serietà le sue tesi. Deve recuperare fiducia e credito agli occhi della gente, evitando “di vivere semplicemente sulla comoda rotaia di certe tradizioni passivamente ricevute” (p. 67). Daniélou, in un crescendo quasi lirico, afferma: “Per questo una delle cose di cui il mondo moderno avrebbe più bisogno è di suscitare nel suo seno di questi geni profetici che sappiano tracciare – in un modo tale che abbia per gli uomini d’oggi l’evidenza di rappresentare veramente ciò che essi cercano – le vie che saranno quelle della umanità di domani” (p. 68). All’intellettuale tocca il compito di trovare una sintesi tra cultura e libertà, riscoprendo quel ruolo di educatore che ha colpevolmente abbandonato, condannando la società all’anarchia (cfr. pp. 69-70).
Quanto risuonano vere e attuali, purtroppo, le seguenti affermazioni del teologo francese: “Ora esistono le persone che sono preposte soprattutto a questa educazione delle libertà, e queste persone sono gli intellettuali. Ma gli intellettuali, invece di educare le libertà, troppo spesso le corrompono. Qui la loro responsabilità è immensa. Perché questo non è l’affare della polizia, non deve essere l’affare della polizia. È necessario che questa educazione non sia imposta dal di fuori. Non è con le censure dei governi che noi speriamo che possa farsi questa educazione delle libertà, perché noi temiamo le censure dei governi che diverrebbero troppo facilmente un soffocamento delle libertà. Occorre allora che gli uomini liberi diventino uomini responsabili. Occorre in particolare che coloro che sono eminentemente gli educatori, coloro che hanno ricevuto da parte di Dio i doni dello Spirito per questo, si rendano conto della gravità della loro specifica responsabilità. È qui che troppo spesso essi vengono meno” (pp. 70-71).
Oggi, come allora, servirebbero autentici intellettuali, non semplici eruditi da salotto. Uomini e donne liberi di osare, coraggiosi e fieri nel portare avanti idee e valori alti, nel proporsi come educatori a servizio dell’umanità. Immunizzati alla seduzione del compromesso e del favore politico, umili di fronte alla verità, spalancati alla meraviglia delle infinite possibilità di conoscenza. Strumenti della sapienza.
Servirebbero, eccome se servirebbero…