A seguito d’un raid, un agente (Edgar Ramirez) delle forze speciali colombiane trova un marchingegno, inventato dal figlio d’un narcotrafficante, che rende possibile scatenare stragi digitando una combinazione sul computer. Contatta la CIA per sbarazzarsene: sulle sue tracce si mettono gli agenti Mace Browne (Jessica Chastain) e Nick Fowler (Sebastian Stan). Da Parigi a Marrakech sino a Shanghai, Mace si troverà accompagnata nelle sue peripezie dalla rivale tedesca Marie (Diane Kruger), dall’informatica inglese Khadijah (Lupita Nyong’o), dalla pseudo-criminale Sheng (Bingbing Fan) e, suo malgrado, dalla psicologa colombiana Graciela (Penelope Cruz).
Offesa perché, tra il 2015 e il 2016, mentre girava “Crimson Peak” e “Il cacciatore e la regina di ghiaccio”, le fu detto che avrebbe dovuto rendersi più atletica, Jessica Chastain – a insindacabile parere dello scrivente, la miglior attrice in attività se non di sempre – si è per rivalsa lanciata nel cinema d’azione, con esiti infelici (da “X-Men Dark Phoenix” ad “Ava”). Girando per l’appunto un film degli X Men, ha proposto al regista, Simon Krinberg, l’idea d’una versione al femminile dei film di James Bond, con protagonista non una singola eroina ma un collettivo.
Il risultato è questa nemmeno troppo sontuosa (costo dell’operazione stimato tra i 40 e gli 80 milioni di dollari: spesi chissà come, data la modestia di ciò che si vede sullo schermo, e comunque per incassarne meno di 30; al fiasco di pubblico si è unito quello di critica) cretinata, diretta senza convinzione, sceneggiata malissimo e recitata mediocremente. Scene d’azione senza carattere, profusione di banalità, buchi narrativi più grossi dell’albergo di Shanghai in cui avviene la rissa del quasi-finale.
Jessica Chastain (anche co-produttrice, con facoltà di esagerare la propria altezza nell’identikit di Mace) fa bella mostra di credere nel progetto, ma la sua intensità è fuori luogo; perennemente rabbuiata Diane Kruger (che sostituisce la collega francese Marion Cotillard, saggiamente defilatasi dopo aver letto la sceneggiatura); del tutto inespressiva Bingbing Fan, bambolotta di porcellana venerata in Cina ma ignota al pubblico occidentale (di ciò profittano i ragazzini africani che ne usano le foto per spacciarsi da bellone asiatiche single in cerca di gonzi europei su Facebook); scarsa la prova di Lupita Nyong’o (che, dopo aver accolto con proclami d’onnipotenza l’Oscar regalatole a mero scopo di propaganda per “Dodici anni schiavo”, era tornata in un mesto anonimato), e assai peggio è quella di Penelope Cruz (vittima dell’ennesima crisi isterica politicamente corretta: assegnare un personaggio sudamericano a un’attrice spagnola sarebbe stato un atto di prevaricazione colonialista), visibilmente disinteressata (resta apprezzabile il fatto che il personaggio più debole sia una psicologa).
Gravemente insufficiente il cast maschile (discreti Ramirez, già con la Chastain in “Zero Dark Thirty”, e il tedesco Sylvester Groth: ma Stan e i vari “henchmen” sono catastrofici). Il peggio è però la sceneggiatura, scritta dal regista con Theresa Rebeck, grande professionista dei film brutti. Quando l’informatica Khadijah spiega alla psicologa Graciela, scossa dall’aver assistito a un’uccisione: “quel che hai passato è orribile”, si comincia a rimpiangere di non aver portato pomodori marci da lanciare sullo schermo; quando Nick predica a Mace che la CIA è responsabile di tante uccisioni (ma dai ma davvero chi l’avrebbe detto ma sul serio tu sì che ne sai), ci si chiede se si stia assistendo a un film girato da professionisti o a una recita di fine estate dell’oratorio estivo. Lo scialbo finale non salva un film bolso, a tratti dilettantesco, mediocre nei suoi pochi momenti vivaci.
Sembra di vedere un film di Almodovar, e non soltanto per la (meno carismatica che mai) presenza della sua musa, “la Madonna di Madrid” (che con le solite camicette bianche e le solite giacchette nere sembra sempre più la sorella separata alla nascita di Virginia Raggi): le figure maschili restano sullo sfondo, e sono quasi tutte negative (egoisti, disonesti, violenti); i pochi uomini presentabili se ne stanno in disparte, entrano in azione soltanto al servizio delle eroine, e fanno una brutta fine. Le protagoniste sono forti, coraggiose, picchiano uomini grossi il doppio di loro, incassano pestoni senza batter ciglio, spendono la vita per il bene della collettività, sono pure parecchio belle (non fosse per la tenuta da “nerd” di Khadijah e la maschera di cera di Sheng). Non hanno alcun timore né a combattere in una stanza dove fioccano le esplosioni, né a rincorrersi tra i binari della metropolitana di Parigi: scena questa che rappresenta un grave errore, perché lo spettatore può così pensare a Joseph Cotten che rincorre Orson Welles tra le fogne di Vienna, e il paragone tra il più bel film di spionaggio mai girato e questa idiozia misandrica è parecchio sbilanciato.

Con buona pace di Daniel Craig (l’ultimo James Bond “tradizionale”, che congedandosi dai film di 007 ha rinnegato il personaggio) e Lashana Lynch (la peggior attrice mai vista in tutto l’universo di 007, nel ruolo dell’antipatica e incompetente Nomi: forse, l’erede di Bond), il cinema del passato ci ha lasciato una meraviglia come “Il terzo uomo”: quello del presente, strettamente regolamentato dal politicamente corretto, ci consegna obbrobri come “Secret Team 355”. Sarebbe saggio, quando si fa un film (o quando si realizza qualsiasi creazione artistica), non farsi imbrigliare dalla propaganda (la stessa che, come detto sopra, ha fatto consegnare un Oscar alla men che modesta Nyong’o): “Secret Team 355” è un valido esempio di quanto sia vacuo e incapace lo star-system che si è fatto selfie con la maglietta elettorale di Joe Biden & Kamala Harris, che da anni predica che Trump è il Male e che le sole questioni politiche che contino sono i desiderata delle multinazionali arcobaleno. Così come nel mondo reale il gruppo di potere sostenuto dalla Hollywood correttamente conformista è lo stesso che sta gettando il mondo in un abisso di guerre continentali, iperinflazione, crack finanziari e catastrofi ecologiche, allo stesso modo la produzione cinematografica di questo enorme caravanserraglio mette in scena una terrificante oscurità artistica.
Jessica Chastain ha già interpretato figure femminili forti: ma si trattava di “Zero Dark Thirty” (Kathryn Bigelow, 2012) e “Molly’s Game” (Aaron Sorkin, 2017), di poco preceduto dal quasi identico “Miss Sloane” (di John Madden; valido ma meno potente). Se però “Zero Dark Thirty” e “Molly’s Game” sono grandi film (e lo sono anche perché scritti e girati liberamente, senza rispettare qualsivoglia agenda pubblicistica), “Secret Team: 355” rispetta pedissequamente alcuni crismi del pensiero unico: le donne sono tutte fortissime, gli uomini sono tutti idioti a parte quelli che si mettono da parte, il meticciato salverà il mondo. Ma è un film brutto, girato malissimo (senza idee né perizia) e profondamente stupido. Le protagoniste di “Zero Dark Thirty” e “Molly’s Game” sono forti e coraggiose come Giovanna d’Arco e Simone Weil, “Secret Team 355” ricorda più Laura Pausini che urla dal palco “le donne hanno due palle così” (frase che, oltre a essere sguaiata, è palesemente maschilista, ma tant’è). Il pensiero unico di Hollywood non fa danni soltanto nel mondo reale: li fa anche al cinema.