Ho conosciuto Sergio Marchionne parecchi anni fa, quando lo intervistai a proposito dei prodotti Iveco, anche loro in fase di luna calante. Un paio di anni dopo, complice una comune sigaretta fumata nel cortile, passai con lui un’oretta alla presentazione del rinnovato Raid Pechino-Parigi, una riedizione di quello del 1907 di Scipione Borghese, Ettore Guizzardi e Luigi Barzini. Quando arrivò nel cortile l’Itala originale, conservata presso il Museo dell’Automobile di Torino, che stava per ripartire per Pechino, molto spiritosamente mi chiese se volevo fare un giro. I vari ciambellani Fiat che gli svolazzavano intorno, all’idea, si strapparono i capelli. Quindi declinai l’offerta per evitare suicidi di massa, ma lui volle comunque fare un giro su quel pezzo di storia.
Si vedeva che non era un uomo che riconosceva più di tanto l’importanza filosofica del prodotto-auto. Ma si vedeva anche che era un dirigente che avrebbe dato la possibilità di sopravvivere al Gruppo Fiat e che, con i vecchi e usurati dirigenti piemontesi del secondo dopoguerra, nulla aveva a che vedere. Infatti lo temevano, fingendo di venerarlo.
Certo non aveva la visione, quasi religiosa, dell’auto di Enzo Ferrari, né la spinta competitiva che ebbe Ferruccio Lamborghini quando decise di costruire capolavori, partendo da un foglio bianco, o quella di Colin Chapman che con la sua Lotus insegnò al mondo quanto contasse il rapporto peso/potenza di un’auto da corsa. Ma, e per fortuna, non aveva neanche la visione mercantile e utilitaristica che Montezemolo aveva stampato sulla carta intestata della casa di Maranello.
Era una specie di reincarnazione, in chiave moderna, del grande Professor Valletta. Colui il quale, per chi non lo sapesse, aveva due attributi: fece grande la Fiat con le idee ardite di Dante Giacosa e tenne lontano dalla fabbrica Gianni Agnelli.
Spiace che un uomo così, che indiscutibilmente ha ottenuto grandi risultati, se ne vada nel pieno della sua opera. Anche perché difficilmente i nuovi capi della Fiat potranno eguagliarlo, ma specialmente perché si ricrea il rischio di finire nelle mani di quella congrega di stolti che portò il Gruppo, oggi composito, che inventò la Topolino, la 500, la Giulia e la Ferrari 250 GTO, nuovamente sulla strada del pressappochismo e del vuoto pneumatico delle idee.