La biografia di Croce negli “anni dello scontento” (1943-1945) scritta da Eugenio Di Rienzo per la nuova collana “Diritto e Rovescio” di Rubbettino ha suscitato vivo dibattito nel mondo scientifico. A margine di questo, con una recensione su «Il Foglio» del 26 luglio 2019, Giuseppe Bedeschi ha rilanciato la tesi del Fascismo come “parentesi” nella storia italiana, assimilata all’invasione degli Hyksos nell’antico Egitto.
Bedeschi, senza polemizzare apertamente con Di Rienzo, ne confuta l’interpretazione del Fascismo quale rileva sia dalla citata biografia di Croce, sia – soprattutto – nella biografia di Ciano, contributo basilare nello studio del Ventennio.
A dire il vero, dall’articolo di Bedeschi traspare chiara una preoccupazione, quella di evitare l’adesione ad una certa corrente storiografica che, in modo palese od occulto, è “antitaliana”, adottando una sorta di sillogismo per il quale il Fascismo è il Male, il Fascismo è consustanziale agli italiani, ergo gli italiani sono consustanziali al Male. Difatti, Bedeschi rilancia l’interpretazione del Fascismo come “parentesi” contrapponendo ad essa la tesi di Gobetti del Fascismo come “autobiografia di una Nazione”, tesi che accomuna in un’unica categoria Depretis, Giolitti, Turati e Mussolini, visti come espressione di una nazione priva di slanci eroici, con la solita, ripetuta tesi storica del “cancro” della Nazione costituita dal non aver conosciuto una riforma protestante.

Su “La Nostra Storia” del 31 luglio 2019 ha risposto Eugenio Di Rienzo, ricordando gli approdi storiografici “non militanti”. Molto significativa, a tal proposito, la chiara esplicitazione del Di Rienzo circa la proposizione della tesi crociana del Fascismo come “parentesi” in sede politica, quando era necessario, a fronte della sconfitta militare, cercare di marcare la divaricazione Italia-Fascismo e far ricadere esclusivamente sul regime le conseguenze della disfatta.
Viceversa, come evidenziato da più parti, il fascismo come problema storiografico sarebbe stato per decenni ignorato dagli specialisti, preferendo gli “storici militanti” utilizzare la storiografia come prosecuzione della lotta politica con altri mezzi.
Solo la monumentale biografia di Mussolini scritta da De Felice a partire dagli anni 60 fino alla sua morte (l’ultimo volume sarà pubblicato postumo nel 1987) smuoverà le acque nel senso di un approccio storiografico al fenomeno Fascismo condotto “sine ira ac studio”. Non a caso gli studi di De Felice furono prima apertamente osteggiati e poi fatti oggetto di una vera e propria “congiura del silenzio” dalla storiografia militante, perché, come nota Sergio Romano: «Per gli usi che la sinistra intendeva farne il fascismo doveva restare un monolite liscio e uniforme, perfettamente orribile e deprecabile». Nonostante ciò, comunque, l’opera di De Felice servì a promuovere una storiografia non “orientata”.

Alla luce degli studi meno condizionati da esigenze di polemica politica, non c’è dubbio che il Fascismo s’inserì a pieno titolo nella storia d’Italia; non c’è dubbio che riscosse ampio consenso; è un dato acquisito anche la presa d’atto del consenso al fascismo da parte di “nemici” come la Terza Internazionale e l’Unione delle Massonerie di Rito Scozzese, la prima con l’appello ai “Fratelli in camicia nera” del 1936, la seconda con le conclusioni del congresso mondiale del 1937.
Tra l’altro, è incomprensibile il continuo richiamo di certa storiografia ad una sorta di “funzione catartica” della riforma protestante. Il cesarismo ottocentesco ebbe ampio consenso nella cattolica Francia e nella luterana Prussia; il totalitarismo novecentesco attecchì nella cattolica Italia e nella luterana Germania.
Non c’è dubbio che le “Cancellerie Europee” guardarono al Fascismo come sbocco inevitabile della crisi italiana degli anni 20. Lo stesso Churchill, che dalla guerra di Etiopia in poi fu implacabile nemico del fascismo, aveva condotto una politica di amicizia con il regime negli anni 20, e pur dopo le “leggi fascistissime” del 1925-26.
Né, nonostante i reboanti proclami ufficiali, il Fascismo si pose in rottura con la precedente storia d’Italia, men che mai con la politica dei governi post-unitari.
La politica internazionale fu in continuità con quella di Crispi prima e Giolitti poi (lo stesso Di Rienzo è autore di approfonditi studi sul punto).
Anche sul piano interno, le profonde modificazioni dell’ordo iuris in almeno apparente contrasto con le politiche liberali all’insegna del laissez faire furono comunque in linea con la secolare storia italiana. La disciplina dei diritti reali collettivi, in contrasto con la legislazione di tipo francese, era un recupero di istituti di diritto romano in vigore nella legislazione preunitaria, soprattutto della Repubblica di Venezia e nel Regno delle Due Sicilie; l’impianto dello Stato Sociale e l’interventismo statale in economia, la funzione sociale della proprietà privata secondo le teorie di Serpieri, erano non solo un ritorno ad alcuni assetti economici preunitari “ripensati” alla luce dei nuovi assetti economici, ma soprattutto s’inserivano nel solco del cattolicesimo sociale ed in particolare della Rerum Novarum di Leone XIII, tanto è vero che furono recepiti nella Costituzione Repubblicana.
Anche l’antiparlamentarismo, l’avversione alla democrazia, linea adottata dal Regime a partire dal 1925, aveva le sue radici nel pensiero italiano a cavallo tra il XIX ed il XX secolo: Alfredo Oriani, Vincenzo Morello, Vilfredo Pareto.
Ed in questa ottica, il consenso al Fascismo non fu una “malattia morale” degli italiani, ma l’adesione di un popolo ad una sintesi tra le varie sue anime che vide nel Fascismo. Si può – pertanto – oggi escludere di parlare del Fascismo come “parentesi” o “frattura” nella Storia d’Italia, senza cadere nella denigrazione dell’anima italiana, come teme Bedeschi.