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Home Economia

Sindacato/ Il grande flop

di Diego Matejka
15 Novembre 2013
in Economia, Home
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Sindacato/ Il grande flop
       

Come in un film già visto, in un copione ingiallito continua la stanca marcia della triplice, sempre meno rappresentativa, verso il capolinea del mondo del lavoro per come lo si conosceva.
Nel tentativo di conservare la loro apparente centralità nel dialogo economico istituzionale raggruppano le bardate forze sventolanti le bandierine del popolo dei preservati.
Lavoratori dell’era Biagi pochi, sono allora gli anziani memori dei sigillatissimi contratti nazionali a fare sfoggio della loro immarcescibile volontà a resistere nello schema ormai noto, senza particolari tattiche d’avanguardia. Quale occasione migliore quindi dell’instabile legge di stabilità per riorganizzare i pullman dei fedelissimi e sfilare nuovamente per le vie forti del proprio blocco storico?
Dal palco risuonano le critiche feroci verso le mancate politiche di sviluppo ma si chiede alla martoriata classe dei lavoratori italiani di mettere ancora mani al loro portafogli per partecipare al collettivo rituale di autocelebrativa alienazione.
I portavoce si cimentano ancora una volta in letture dai toni forti e la rappresentazione riesce come sempre a coprire gli spazi delle telecamere.
Chi vive invece nella società reale glissa, lasciando la banda passare, per affrontare i patemi e le preoccupazioni del vivere quotidiano.

I giovani, nella prospettiva di una disoccupazione latente, legati giocoforza alla dimensione famigliare, sfilano sempre meno numerosi e sempre meno consapevolmente nell’età dell’innocenza, sotto gli slogan de più scaltri sessantottini revival.

Lo strumento dello sciopero, nel periodo ormai remoto del boom economico rappresentava, a ragione o a torto, un sistema che si è dimostrato per certi versi efficace nel forzare una redistribuzione della ricchezza e allargare sensibilmente la componente piccolo borghese della società italiana. Lo sproletarizzazione della classe lavoratrice ha di converso gradualmente minato una delle basi militanti dei sindacati più guerrafondai e classisti.
Il sindacato dei diritti e della partecipazione all’utile è stato sicuramente protagonista di una stagione dai connotati e sviluppi socio-economici molto più ampi della prospettiva miope della componente vetero-comunista. 

Una crescita economica sempre più fioca ha visto poi nella famosa abolizione della scala mobile il sintomo dell’arrestarsi dell’ascesa del mondo sindacale e dei benefici conseguenti rispetto a una società sempre poco avvezza all’interrogarsi su quale pianificazione potesse consolidare le conquiste conseguite. 
La società italiana, non necessariamente per un piano metodicamente preordinato, ha pensato piuttosto a caricare il sistema di sempre più pesanti gravami burocratici e di contribuzione finanziaria, andando così a comporre il pachiderma statale/pensionistico lungamente oggetto delle preoccupazioni degli analisti.

Caricata così di tale massiccia realtà sulle proprie spalle l’economia ha subito, senza troppe difese o margini di manovra, lassismo, strumentalismo elettorale e ignavia hanno caratterizzato una stagione politica che ha visto solo isolati episodi di alleggerimento, senza colpire il nodo burocratico, senza analizzare con sguardo disincantato gli accadimenti moderni, distillando in piccole dosi l’amaro calice della ritirata.

La tanto decantata ricetta liberale di cui si riempivano e gonfiavano i petti i leader del centro-destra di governo si è rapidamente infranta contro le prime resistenze di tale agglomerato e le conseguenti ritirate strategiche e defezioni in casa dei soggetti meno votati al confronto hanno consegnato il paese alla “soluzione” social-democratica della controversia.
Trattasi nella sostanza di far accettare con un sindacalismo di maniera e con una parziale partecipazione democratica dei settori più ammaestrati della società la graduale svestizione dello stato sociale e del principio del lavoro come diritto e dovere della società italiana per ingrossare gradualmente i ranghi statali o i margini di dipendenza di una società legata a doppia mandata al sistema pubblico, finanziante lo stesso e ove sostenuta dai poteri forti, finanziata.
Il principio genuinamente liberista è non più materia di retroguardia ma sostanzialmente asservito ai margini concessi dal sistema burocratico / politico. Il controllo è divenuto così potere.

Solo le recenti crisi a catena che hanno colpito la filiera produttiva italiana, le esternalizzazioni o migrazioni aziendali nei paradisi terzomondisti alle frontiere dell’Europa o di molto oltre, hanno bruscamente riportato alla cronaca le disperate circostanze di molti lavoratori italiani, forti dei loro contratti nazionali ma privi ormai delle aziende dove farli valere.

DI fronte all’emersione di queste drammatiche circostanze si continua a ragionare in termini di lessico classista/padronali senza comprendere quanto la strutturazione dello stato e della burocrazia, talora anche quella sindacale, rappresenti un complesso di poteri che talvolta mal si coniuga con gli interessi collettivi e del singolo cittadino, ove questi non appartenga a qualche corporazione o casta.

Muore così il concetto popolare che dovrebbe animare le moderne democrazie.

Poco importa ad esempio alle sempre più presente, televisivamente parlando, Susanna Camusso, perché mal che vada la CGIL conserva ormai una propria precisa vocazione alla formazione delle classi dirigenti del partito democratico per i temi di carattere socio-economico, dove questi, perso in una manierismo da salotto, sembra essere quantomeno evanescente quando si tratta di fare i conti con le preoccupazioni delle classi lavoratrici.
Si lotta per interpretare la parte del traghettatore di anime, il Caronte della fine dei tempi. 

Risulta piuttosto evidente, invece, come oggi sia imprescindibile la necessità di un sindacalismo nazionale nuovo, aggregante e capace di non perdersi nei mille rivoli delle specificità egoistiche, fermo nell’opporsi alle mistificazioni politiche, motore del cambiamento, ingranaggio funzionale e non più deterrente statico.

Se la destra che ambisce a posizioni di governo desidera ancora giocare un ruolo nel tentativo di invertire il corso di un declino al momento evidente dovrà farlo ripensando i propri rapporti con il mondo dell’associazionismo e rappresentativo, incentivando le spinte modernizzatrici del mondo sindacale e contrapponendosi coerentemente a quelle conservatrici e disgregatrici.

Non cogliere il cambiamento dei tempi e dei rapporti di forza sarebbe un errore imperdonabile.

Tags: disoccupazioneeconomialavorosindacato
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