Come era facilmente prevedibile e come da noi a suo tempo pronosticato (ci piace vincere facile) la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione del procedimento aperto per la presunta apologia di Fascismo asseritamente costituita dalla manifestazione in memoria dei caduti della RSI tenutasi al Campo X di Musocco il 29 aprile scorso.
I fatti sono arcinoti: il sindaco Sala, istigato dalle zitelle isteriche dell’ANPI e dalla congrega radical chic del PD milanese, aveva fatto pressione sulle autorità preposte all’ordine pubblico affinchè vietassero, per la prima volta, una commemorazione che si teneva da decenni senza problemi.
E infatti, con supremo sprezzo del ridicolo, il 25 aprile la manifestazione veniva vietata e il cimitero militarizzato.
Solo che il 29 aprile i ragazzi di Casapound e Lealtà e Azione, aggirando il divieto di cui sopra e sorprendendo le autorità, erano riusciti a tenere lo stesso la commemorazione con tanto di appello ai caduti e saluti romani in quantità.
Da lì un voluminoso rapporto all’autorità giudiziaria da parte della DIGOS, che evidentemente non aveva di meglio da fare, destinato inesorabilmente al cestino della carta straccia se il GIP condividerà la richiesta di archiviazione.
L’esito di questa vicenda, più comica che drammatica, era scontato ma la posizione del pool antiterrorismo e antieversione della procura è comunque significativa: i magistrati milanesi, già soccombenti in numerosi procedimenti precedenti sul tema, questa volta non hanno potuto che prendere atto delle conclusioni della ormai copiosa e unanime giurisprudenza in materia e riconoscere che la manifestazione non aveva l’intento “di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostruzione del disciolto partito fascista” ma solo una “finalità meramente commemorativa”.
Per queste conclusioni, oramai consolidate ed inattaccabili anche in linea di principio, non possiamo che ringraziare l’ottusità e la dabbenaggine dell’ANPI e degli antifascisti che hanno sostenuto in questi anni l’assurda pretesa di imporre una lettura fanatica e settaria di norme di legge già correttamente ed autorevolmente valutate, in modo diametralmente opposto, dalla Corte Costituzionale e dalla Cassazione.
La ridicola ostinazione nel presentare denunce fuori dalla realtà per impedire la manifestazione dle pensiero altrui ha permesso di produrre la chiara ed univoca giurisprudenza che oggi si ritorce contro coloro che l’hanno maldestramente provocata ed ai quali dovremmo, quindi, rivolgerci tutti con animo grato.
Di questa lezione, però, dovrebbero fare tesoro anche quelle autorità dello Stato che con troppa superficialità e grave sudditanza si sono accodate alle assurde richieste antifasciste mettendo la forza pubblica a disposizione di una tesi politica grossolana e per di più palesemente infondata.
Può capitare che un sindaco opportunista ed impreparato o i militanti di inutili associazioni parapolitiche ignorino o rifiutino la corretta interpretazione della legge, ma questo non dovrebbe accadere ad un alto funzionario dello Stato, men che meno se l’errata applicazione della legge in questione può limitare ingiustamente un diritto fondamentale come il diritto di espressione.
Di questa lezione dovrebbe fare tesoro anche Emanuele Fiano, il goffo peone del PD che è riuscito a guadagnarsi il quarto d’ora di notorietà a cui tutti, almeno secondo Andy Wharol, hanno diritto mettendo insieme una legge grottesca e insensata diretta a mandare in galera per 3 anni chi, con un atto fortemente eversivo, compra un bottiglione di vino con il faccione di Benito o mette in pericolo la democrazia usando un portachiavi a forma di fascio littorio.
La bizzarra trovata con la quale Fiano sta intralciando i lavori del Parlamento se mai venisse veramente approvata è, ovviamente, destinata a schiantarsi oltre che contro il buon senso contro la Corte Costituzionale che sul tema si è già pronunziata chiaramente con due sentenze esemplari, una delle quali, la n. 1 del 1958, redatta da Enrico De Nicola, padre costituente e primo presidente della Repubblica.
E’ molto probabile perciò (anche in questo caso ci piace vincere facile) che il quarto d’ora di notorietà conquistato da Fiano oggi si trasformi domani in una inesorabile figura da cioccolataio ottenendo, oltretutto, l’effetto contrario a quello desiderato.
Ed anche in quel caso non potremo che ringraziarlo.
Ovviamente la reazione delle perpetue antifasciste alla notizia della richiesta di archiviazione è stata scomposta e sconclusionata.
Dimostrando la consueta ignoranza delle più elementari nozioni di diritto ed il disprezzo, peraltro tipico della sinistra più settaria, dei diritti altrui, Giuseppe Cenati, presidente provinciale dell’ANPI, ha bollato come “inquietante e grave” la decisione della Procura di Milano arrivata “nonostante le denunce della Digos per aperta apologia di fascismo, per le centinaia di braccia alzate per il saluto romano”, come se la denuncia della Polizia fosse già di per sé una condanna della quale la magistratura deve solo prendere atto.
Proseguendo poi con la paradossale richiesta allo Stato di “fermezza e decisione per contenere e respingere ogni tentativo, oggi purtroppo ricorrente, di esaltazione del fascismo, applicando le leggi che già esistono”, cioè esattamente quello che la Corte di Cassazione fa e ha sempre fatto in decine di casi analoghi a quest’ultimo, con sentenze univoche ispirate a principi stabiliti dalla Corte Costituzionale, seguita dalla Corte d’Appello di Milano qualche mese fa e oggi anche dalla Procura.
Il problema è che nessun ordinamento civile può esercitare la giustizia sommaria che invoca l’ANPI quando chiede “esemplari condanne che ancora oggi stiamo attendendo” e la legge n. 645/1952, cioè la cd legge Scelba, non prevede quello che, per ignoranza o malafede, pretende l’ANPI.
Fortunatamente (in attesa che Fiano intervenga anche qui) almeno per il momento esiste ancora una magistratura che applica correttamente la legge.
Fatti e nozioni, per quanto elementari, evidentemente troppo sofisticati e non alla portata di chi pretende di vivere in una guerra civile permanente rimpiangendo i tempi in cui certe questioni si regolavano col piombo dei tribunali del popolo e non con le sentenze della Cassazione.