Contenimento dei costi, sinergie, efficienza, qualità del servizio, autonomia dalla politica, redditività, investimenti… Malgrado gli impegni ricorrenti, rilanciati soprattutto nei periodi elettorali, le parole chiave del vocabolario delle imprese private non sembrano ancora aver trovato posto – salvo poche eccezioni – nel manuale di governance delle società controllate dagli enti locali.
Lungi dal farsi condizionare dalle lamentele dei cittadini sui prezzi e sulla qualità dei servizi erogati, o dalla volontà del Governo di privatizzare e ridurre la presenza pubblica nelle grandi aziende di Stato, gli amministratori di Regioni, Comuni, Province e Comunità montane non sembrano avere alcune intenzione di mollare la presa nè sulla proprietà nè sulla gestione delle società controllate. Che sono tante, anzi tantissime. Più di 5.500 sparse in tutta Italia, con una rete di partecipazioni azionarie che si estende da Nord a Sud in oltre 33mila società di servizi. È un universo senza confini, di cui in realtà è persino difficile capire le reali dimensioni: per l’Unioncamere rappresentano poco meno del 2% del Pil italiano e l’1,1% dell’occupazione nazionale, ma una radiografia esatta del pianeta «local utilities» non è riuscito ad averla ancora neppure il governo. Costretti dalla legge a cedere tutte (o quasi) le partecipazioni entro la fine di quest’anno, gli enti locali hanno adottato la vecchia tattica della melina: al Consoc, l’organismo creato dalla Presidenza del Consiglio per censire le aziende di servizi a controllo locale, sono arrivati finora documenti e informazioni soltanto da poco più della metà delle amministrazioni. Anche se le cessioni dovrebbero cominciare l’anno prossimo, la conoscenza dei numeri precisi del settore resta quindi ampiamente incompleta.
L’unica cosa certa, oggi, è che che salvo le consuete rare eccezioni, le local utilities producono decisamente poco e costano una fortuna: secondo i bilanci dell’anno scorso, solo il 26% delle società partecipate da enti locali ha chiuso in utile mentre ben il 56% in perdita. Del restante 18%, invece, non sono neppure disponibili i bilanci.
Il risultato è che per coprire buchi di bilancio e inefficienze nella macchina amministrativa, si schiacciano spesso i cittadini a forza di rincari. Dal 1996 al 2006, periodo studiato attentamente in una ricerca dell’Unioncamere, le tariffe dei servizi pubblici locali (produzione di energia elettrica, gas e acqua, trasporti e gestione dei rifiuti) sono cresciute in media del 40%, ovvero il 15% in più dell’inflazione. Di contro il valore aggiunto per ogni addetto è di circa 60mila euro, mentre nel totale Italia sfiora i 98mila euro. E ancora il costo del lavoro per addetto è di 42,3mila euro mentre in media nel Paese è di 41,9mila. E se il cittadino paga il conto finale delle inefficienze, la gestione questa macchina elefantiaca garantisce agli enti locali non solo introiti certi, ma anche consenso: mentre nel settore privato l’occupazione scende, in quello pubblico locale sale. La dimensione media delle imprese, calcolata sulla base dell’occupazione, è infatti di 87 addetti, decisamente superiore a quella del settore privato: nel Mezzogiorno la media arriva addirittura a quota 105 adetti, mentre al Centro-Nord si attesta a 82. E in soli tre anni, l’incremento occupazionale ha raggiunto la quota complessiva del + 20,9%, percentuale da sogno nel settore privato e soprattutto in contrasto con la situazione finanziaria delle stesse imprese. A questo proposito, i dati forniti al Consoc dagli enti locali offrono buoni spunti di riflessione: i bilanci migliori sono quelli delle società per azioni, mentre le aziende speciali a maggioranza pubblica sono in maggiori difficoltà. Ed è proprio su queste ultime che si concentrano i maggiori sospetti di politiche clientelari: assunzioni precarie mirate ad aggirare la norma sul blocco del turn over nel pubblico impiego.
Fare chiarezza, portare trasparenza e soprattutto efficienza in questo settore parallelo e protetto dell’economia italiana è insomma prioritario. Per l’economia nazionale e soprattutto per i cittadini-utenti: perchè se privatizzare le grandi aziende pubbliche consente allo Stato di fare cassa, è solo attraverso una gestione efficiente e trasparente delle aziende locali che le famiglie e le imprese possono recuperare la fiducia sulle istituzioni.
di Alessandro Plateroti, Sole 24 Ore, 21 settembre