Il 25 novembre 1970, Yukio Mishima, il più grande scrittore giapponese del Ventesimo insieme a Yasunari Kawabata, si diede la morte secondo un rito ancestrale, il seppuku, che volle essere di contestazione estrema e globale alla morale e ai costumi (politici soprattutto) dominanti. Come scrittore nato “postumo”, in ragione della visione della decadenza descritta quando nessuno osava ipotizzarla, Mishima ha visto crescere a dismisura la sua fama letteraria. Tuttavia chi può dire di comprendere totalmente la sua concezione politica, la sua estetica civile, la sua domanda di bellezza nel tempo dell’orrore metafisico e dell’immaginario volgare? Chi può assolverlo, ancorché non condividendone le idee, dall’aver compiuto un gesto così clamoroso che suonò come un implacabile atto d’accusa contro il mondo ed il tempo che lui intendeva processare imputandoli di rinuncia, viltà, tradimento?
La sua opera imponente, quasi tutta tradotta in Occidente ed in particolare in Italia suscita ammirazione, ma non sempre comprensione. E rileggendo ciò che i giornali italiani ed europei scrissero all’indomani del suo clamoroso suicidio, non sembra che il giudizio di oggi, cinquant’anni dopo, sia mutato, nonostante pregevoli testi abbiano indotto ad una sorta di benevola accoglienza, depurata dal nazionalismo, per salvare la sua ragguardevole e raffinata produzione letteraria. Anni fa la Mondadori pubblicò in due corposi tomi i suoi romanzi più significativi, consacrandolo nel nostro Paese come uno degli scrittori più importanti del Novecento. Maria Orsi, nell’introduzione all’opera, afferma senza imbarazzo che Mishima “rappresenta la tradizione giapponese più autentica. Ma nello stesso tempo riconosce che è anche lo scrittore più moderno del suo Paese che, tra l’altro, prima che apparisse la stella di Oe Kenzaburo, ha saputo conciliare la sua anima orientale con l’assimilazione della cultura occidentale, “fino a farne parte integrante del proprio messaggio poetico”.
Un paradosso? Soltanto in apparenza. In realtà l’innato senso della bellezza, che lo scrittore coltivò fin dalla più tenera età, gli fece scoprire che l’analogo sentimento era il fondamento della cultura classica occidentale, soprattutto ellenica. Ed è per questo che Mishima può, giustamente, considerarsi scrittore di “due mondi”, interprete di una tradizione universale, il cui stile può essere compreso anche dagli europei dai quali ha imparato molto, soprattutto “frequentando” d’Annunzio e Huysmans, Dostoevskij e Mann, Wilde e Baudelaire, ma anche Radiguet e Nietzsche.
“L’Occidente – nota la Orsi – peraltro è un richiamo immediato, che impone di confrontarsi con esso, di scandagliare fin dove esista la possibilità di dialogo e forse di intesa”.
I romanzi confermano questa considerazione. E, stilisticamente, alcuni vennero appunto ritenuti “scandalosi”, nel senso che innovarono la tradizione letteraria. Ma “scandalosa”, oltre ogni immaginazione, fu la “morte volontaria”, secondo un codice antico ed eroico, che scelse di darsi a quarantacinque anni, un’età di semina per chiunque, ma non per lui che aveva esaurito anche il tempo del raccolto più maturo e paradossalmente più amaro. Aveva già fatto tutto, infatti, non gli restava che esibire il suo capolavoro, sintesi di una esistenza inimitabile. E lo trovò in una fine cruenta, gesto supremo d’amore per la tradizione del suo Paese e coerente con quanto aveva sostenuto in tutti i suoi scritti, accompagnato da un’opera letteraria mirabile. Non a caso, poche ore prima di togliersi la vita licenziò l’ultima parte della tetralogia del Mare della fertilità, più che un ordinario romanzo, un testamento.
La vita spirituale e letteraria di Mishima ha coinciso con l’essenza stessa della cultura giapponese talvolta, come si è detto, attraversata da suggestioni occidentali. Al punto che la sua poetica non ha lasciato indifferenti intellettuali europei anche ideologicamente lontani da lui. Tra i più significativi ricordiamo Alberto Moravia che nell’introduzione a Morte di mezza estate, scrisse un omaggio che non lascia dubbi sul coinvolgimento emotivo non solo del gesto di Mishima, ma della sua scintillante prosa non dissimile in alcuni testi da quella praticata da grandi scrittori europei come d’Annunzio o Wilde. “La fine atroce e spettacolare di Mishima – scrisse Moravia nel 1971 – mi ha molto rattristato perché l’avevo conosciuto durante un mio viaggio in Giappone e avevo avuto molta simpatia per lui e così mi dispiace che sia morto per i motivi per cui è morto. Questi motivi sono per me assurdi, anche se comprensibili, ma troppa gente, in Europa e altrove è morta intrepidamente per simili motivi perché dobbiamo non giudicarli per quello che sono, fermandoci, come si dice, riverenti di fronte alla morte. Tuttavia non è esatto definire fascista Mishima, come molti hanno fatto. Lo chiamerei semmai un conservatore di tipo decadente, lodatore estetizzante del tempo passato, vagheggiatore raffinato di un’epoca definitivamente conclusa anche se recente. Immaginiamo un momento che in Italia il feudalesimo dell’anno Mille si fosse prolungato fino al 1945. Mishima aveva la nostalgia di un simile feudalesimo che in Giappone effettivamente non è del tutto scomparso con l’occupazione americana”.
La “nostalgia” richiamata da Moravia era in realtà la fedeltà ai valori dello spirito giapponese Eppure l’opera letteraria di Mishima era quanto di più “moderno” si potesse immaginare negli anni Quaranta e Cinquanta prevedendo che cosa sarebbe stato del suo Paese e invocando una rivolta “chiusa” al ritorno ai vecchi costumi, né la restaurazione formale di istituti decaduti, ma la coniugazione della tradizione, intesa come riconoscimento di un “sentire” profondo , con l’avanzante tendenza individualista della quale molti romanzi sono impregnati. Certo, se non è stato un fascista in senso ideologico perché estraneo alle dinamiche italiane ed europee tra le due guerre, è innegabile che sia stato un conservatore per la spiccata e non contestabile tendenza a preservare l’essenza di un mondo di valori e sentimenti e percezioni della realtà che, per quanto giapponesi, possono essere compresi da chi nell’altro emisfero nutre un medesimo atteggiamento nei confronti della religiosità della vita alla quale Mishima non ha mai derogato per quanto alcune forme ribellistiche, letterarie e politiche, possano far intendere il contrario.
Mishima, scrisse ancora Moravia, “come uomo pubblico e come scrittore era rappresentativo del Giappone, un paese dualistico e contraddittorio nel quale, accanto ad una rivoluzione industriale e neocapitalistica di tipo americano, coesistono abitudini, costumi e visioni della mondo tradizionali. Ancora oggi in Giappone la mediazione tra rivoluzione industriale e feudalesimo nella letteratura è affidata non già al marxismo, bensì all’estetismo, un po’ come avveniva in Europa un secolo fa. Per questo forse Mishima amava d’Annunzio . Non lo amava perché apparteneva al passato; lo amava perché lo riteneva tuttora nel centro del presente”.
E al “centro del presente” sostava Mishima in contemplazione attiva dell’Eternità, un tema che è tanto giapponese quanto europeo arcaico, in particolare ellenico e romano. In questo è indiscutibilmente un “classico” di due mondi. Come ha osservato Giancarlo Calza nel saggio Stile Giappone “Mentre le ideologie che lo avevano a turno acclamato e denigrato svaniscono come sogni mattutini, la sua arte lo avvicina sempre più ai classici, mentre la lettura della sua esistenza pare sempre più profonda e indecifrabile”.
Mishima, ho l’impressione che fosse consapevole di essere un “classico”, dunque non classificabile, né per le sue tendenze politiche, né per quelle intime afferenti alla sua presunta omosessualità, come nel saggio citato, ha scritto Calza. Egli aveva piuttosto l’interesse a far notare ai suoi interlocutori come in Giappone fosse prevalente la tendenza a dare maggior peso alle arti, simboleggiate dall’immagine del crisantemo, piuttosto che agli aspetti guerrieri rappresentati dalla spada. Su questa apparente dissociazione si fondava l’incomprensione dei contemporanei verso la tradizione giapponese che invece ruotava attorno alla “miracolosa” convivenza dei due momenti.
Mishima si propose di sanare con la scrittura e con lo stile di vita questa “frattura”, tra il Crisantemo e la Spada. E incominciò subito, a vent’anni, ottenendo la consacrazione letteraria. Fu Confessioni di una maschera (1949) che lo fece riconoscere come astro nascente della letteratura giapponese. “Capolavoro dell’angoscia”, secondo Marguerite Yourcenar (Mishima, la visione del vuoto), il romanzo è l’autobiografia dello stato d’animo di una generazione pervasa da uno struggente bisogno di morte, di annullamento ed insieme di erotismo inappagato sospeso tra la passione omosessuale del protagonista per un suo coetaneo e l’innamoramento dello stesso per una sua amica d’infanzia, sposata con un altro. Insomma, la sintesi della sua stessa natura che Mishima senza sotterfugi visse apertamente in aderenza al solo bisogno professato: far combaciare l’amore e la morte in un quadro di bellezza personale, inaccessibile a chiunque. Si spiega così la sua relazione con il giovane amico Morita che lo seguì, da lui autorizzato, in tutta la sua parabola fino alla morte: privilegio nobilissimo e raffinato, secondo l’antica etica bushi, accordato all’essere che si è amato.
Vennero poi altri lavori come Sete d’amore (1950), Colori proibiti (1951), La voce delle onde (1954), Il padiglione d’oro (1955) in alcuni dei quali è evidente l’influenza l’occidentale. Generalmente si è portati a vedere in questo periodo della produzione di Mishima un’eccessiva concessione al romanticismo decadente, ad un estetismo fine a se stesso. Ed è un errore. Mishima mostrava piuttosto di reagire differentemente al disagio spirituale che avvertiva dolorosamente e questa condizione ha potuto trarre in inganno gli esegeti che hanno scambiato la sua letteratura come manifestazione del disimpegno.
Non era così. Mishima smentì tale interpretazione con il romanzo Dopo il banchetto (1964) che segnò il suo ingresso fragoroso, vibrante e consapevole nella politica (venne querelato da un ministro che si sentì chiamato in causa). Con questo libro, infatti, lo scrittore stigmatizzò duramente il mercanteggiamento elettorale al quale erano dediti i politici e numerosi esponenti dell’alta borghesia.
La sua morte a quarantacinque anni segnò uno spartiacque tra il Giappone occidentalizzato e quello “eterno” descritto, tra l’altro, in Sole e acciaio, Patriottismo, La voce degli spiriti eroici. Prima di togliersi la vita presso il Quartier generale dell’Agenzia di Difesa, dopo aver preso in ostaggio con quattro suoi discepoli il comandante ed aver arringato da una balaustra alle Forze armate, Mishima quella stessa mattina, inviò al suo editore l’ultima parte della tetralogia del Mare della fertilità: più che un ordinario romanzo, un testamento. In essa lo scrittore coglieva nella società nipponica, per quanto devastata, elementi di una possibile restaurazione culturale e spirituale. I quattro romanzi del ciclo sottendono la nozione di reincarnazione. Ma è nel secondo volume, Cavalli in fuga, che Mishima esprime con metafore assai efficaci e in uno stile scintillante le sue idee politiche e religiose ponendole ancora una volta sullo sfondo dei violenti contrasti che caratterizzarono il Giappone negli anni Trenta.
Alla fine della sua navigazione Mishima trovò il Grande Mare che avrebbe solcato in compagnia delle tante anime del Giappone fatte rivivere nella sua opera letteraria. Sembrò, infatti, a chi lo conosceva, che ci fosse una tumultuosa, invisibile folla, rappresentativa della tradizione spirituale e culturale del Sol Levante, quel giorno di novembre nell’ufficio del generale Mashita al Quartier generale dello Jeitai quando lo scrittore si accasciò sul pavimento, con l’addome squarciato, mormorando per l’ultima volta: “Lunga vita all’Imperatore”. Qualcosa di più di un omaggio formale, quasi una preghiera.