La sovranità è il cuore del potere politico. Essa qualifica l’ultima istanza del comando legittimamente accettato e condiviso. In altre organizzazioni che non siano giuridico-politiche non esiste una funzione tale da giudicare e, di conseguenza, regolare i rapporti con altre strutture ed aggregazioni pur appartenenti alla stessa società. Pertanto è una qualità esclusiva del politico che vale a qualificarlo nella suprema istanza di dichiarare chi è il nemico pubblico (hostis) e chi l’ amico, secondo la qualificazione delle categorie che definiscono la politica nella teoria elaborata da Carl Schmitt, per il quale “sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, come si esprime in Teologia politica nel 1922. Ma qual è lo “stato d’eccezione”? E’ quello non descritto, non previsto nell’ordinamento giuridico, dal quale però si crea una situazione normale e sovrano, appunto, è colui che ha la potestà di decidere in maniera definitiva, una volta per tutte, se lo stato di normalità esiste realmente.
“Il sovrano – scrive Schmitt – crea e garantisce la situazione come un tutto nella sua totalità. Egli ha il monopolio della decisione ultima. In ciò sta l’essenza della sovranità statale, che quindi propriamente non deve essere definita giuridicamente come monopolio della sanzione o del potere, ma come monopolio della decisione, dove il termine decisione viene usato in un significato generale che deve essere ancora sviluppato. Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non avere bisogno di diritto per creare diritto”.
E’ la rappresentazione della potestas allo stato più puro che giustifica la ribellione statuale a divisioni che contrastano con essa e la mettono in discussione o la limitano secondo quanto hanno sostenuto Hobbes e Bodin, ispiratori a diverso titolo (più il primo che il secondo) di Schmitt. Ma anche la teologia medioevale soccorre lo studioso tedesco nella definizione di sovranità che, ribadisce, appartiene a chi legittimamente – a qualsiasi titolo ottenuto – esercita il potere e dunque rappresenta le istanze di coloro che sono alla sovranità consapevolmente sottomessi e da essa invocano tutela quando l’hostis, il nemico – nella classicità si sarebbe detto il “barbaro” ovvero lo straniero – ne minaccia l’integrità, il diritto all’esistenza, la dignità, la libertà o quando agenti interni alla comunità stessa di appartenenza creano situazioni di disordine fino all’eversione contro il potere costituito.
La filosofia hobbesiana, tuttavia, è limitata e lo stesso Schmitt si rende conto della sua inadeguatezza a definire la sovranità nell’ordine degli spazi internazionali soprattutto, dove i conflitti danno luogo al nuovo nomos della Terra.
La filosofia dello Stato della Controrivoluzione, ed in particolare il pensiero politico di De Maistre e di Donoso Cortés, forniscono a Schmitt l’ispirazione per teorizzare la fondazione di un “potere indiscutibile”, tutt’altro che agonistico, come suggeriva Hobbes, ma radicato in valori spirituali e sacrali. Il che non implica l’accettazione indiscutibile delle idee dei filosofi cattolici, ma piuttosto l’utilizzazione del principio: Schmitt, da scienziato della politica e da giurista, guarda di più ai contenuti visibili dello Stato in connessione con una visione ordinatrice della realtà che agli aspetti eminentemente etici. Si avvicina pertanto alla dottrina dello Stato Controrivoluzionario rivolgendo la propria riflessione socio-politica a quel mondo umano e culturale che fu partecipe delle due grandi rivoluzioni sovvertitrici dell’ordine naturale: quella del 1789 e quella del 1848.
Riguardo a De Maistre, Schmitt osserva che il pensatore savoiardo (a cui Domenico Fisichella ha dedicato di recente un prezioso saggio) “parla con particolare predilezione della sovranità che per lui significa essenzialmente decisione. Il valore dello Stato consiste nel fatto che essa è l’ultima decisione inappellabile. L’infallibilità dell’ordine spirituale è per lui identica alla sovranità dell’ordinamento statale; i due termini, infallibilità e sovranità, sono perfettamente sinonimi”. E a proposito di Donoso Cortés, rileva che “è di incalcolabile rilevanza il fatto che uno dei maggiori rappresentanti del pensiero decisionistico e filosofo dello Stato cattolico, consapevole in modo estremamente radicale dell’essenza metafisica di ogni politica, di fronte alla rivoluzione del 1848 fosse in grado di comprendere che l’epoca del realismo era giunta la fine”. Si apriva la porta all’utopia disordine a cui la sovranità è per natura deputata ad opporsi. Sempre Donoso Cortés, polemizzando contro l’indecisionismo della clasa descutidora offre un motivo in più per definire la decisione come l’essenza della sovranità. Che pertanto non può essere appannaggio del popolo indistinto, ma dello Stato che il popolo riconosce.
Al popolo appartengono la dignità e la libertà, ma la loro tutela non può che risiedere nel potere politico costituito, nella legittimità della funzione decisionale a cui nessuna comunità che vuole restare indipendente può rinunciare a meno di non voler creare un disordine prevedibile dal quale altri poteri, altre élites, altri establishment sorgeranno fino a dichiarare “sovrani”, come sta accadendo nella nostra epoca, altri centri di potere che con gli interessi reali del popolo non hanno nulla a che vedere. Ogni riferimento all’esondazione delle deleghe attribuite ad organismi sovranazionali è indiscutibile. Come indiscutibile è il tramonto della sovranità che si riflette nella decadenza dello Stato nazionale contro il quale – anzi, contro il principio stesso di nazionalità – si accaniscono tutti i centri di potere che sostengono nuove forme di dominio fondate sull’anonimato di chi le esercita attraverso la diffusione del cosiddetto “pensiero unico”, l’omologazione universale che come fine ultimo ha programmato l’affossamento dei diritti dei popoli ipocritamente valorizzando – in maniera perfino retorica – i “diritti umani” come se questi potessero essere salvaguardati mentre le comunità a cui afferiscono vengono sistematicamente e ferocemente devastate nelle loro identità, tradizioni, costumi, linguaggi, credenze.
Da una logica tutta interna al giacobinismo nasce il liberalismo che mette in serio pericolo la sovranità attraverso la “corruzione” fino all’addomesticamento degli Stati nazionali. Ed il destino della sparizione delle nazioni come comunità libere ed indipendenti, in grado di creare aggregazioni sovranazionali purché non si elimini lo Stato stesso, ragione primaria di legalità per poter agire in vista di una armonia tra diversi, è purtroppo già presente alla nostra attenzione.
Nel suo illuminante saggio Alla ricerca della sovranità. Sicurezza e libertà in Thomas Hobbes, Domenico Fisichella scrive: “Lo Stato come forma specifica di organizzazione del potere politico è la più grande invenzione istituzionale della modernità. E nasce con finalità precise, una delle quali è appunto la sicurezza per i cittadini. Progressivamente, però, lo Stato ha subito un processo di appesantimento, si è visto gravato da innumerevoli funzioni e attribuzioni e competenze, spesso proprio a scapito della sicurezza. Inoltre esso è attaccato dal basso e dall’alto, dai poteri locali e dai tentativi, che da tempo vengono compiendo anche sull’onda della globalizzazione e degli squilibri demografici del pianeta, di mettere in piedi istituzioni sovranazionali, talché da più parti si è preconizzato che l’epoca dello Stato volge al termine. Per di più, a partire dalla prima metà del secolo XIX dottrine e ideologie ostili all’idea stessa di Stato hanno svolto un’opera di erosione delegittimante che ha inferto più di una ferita ancora aperta”.
È con questo problema che ci troviamo, al debutto del XXI secolo, a dover fare i conti. Ponendoci una domanda che duecento anni fa affiorò nel dibattito politico e filosofico: ma davvero non abbiamo più bisogno dello Stato?
Da questo interrogativo, che i sostenitori della sovranità ( e non solo loro) dovrebbero porsi nasce la questione dell’integrazione degli Stati in spazi pubblici, amministrativi e burocratici più vasti senza perdere la connotazione che li qualifica e li giustifica. Sicché lo “spazio europeo”, al quale si è conferita una sovranità piuttosto “leggera”, risulta il prodotto di una ibridazione non convincente tra le ragioni degli Stati e gli aggregati che la vecchia scienza politica chiamava “imperiali”.
Da questo equivoco si evince come l’Unione europea, tanto per uscire dal vago, sia la negazione dell’Europa stessa, il cavallo di Troia per scardinare le nazioni e gli Stati che li rappresentano e ne racchiudono l’essenza. Non certo perché degli organismi burocratici e finanziari debbano decidere su cose piuttosto irrilevanti, quando non palesemente ridicole, ma per il semplice fatto che l’organismo “democratico” è divenuto nel tempo talmente assertivo nell’indirizzare i destini dei popoli che vi hanno aderito da porre in termini concreti il tema della sovranità e dei meccanismi che possono regolare la convivenza tra l’Unione e gli Stati.
L’Europa, al di là della retorica, dunque, semplicemente non esiste: se esistesse sarebbe uno Stato (di quale forma è secondario stabilirlo). E, per di più, la sua parodia è preda della finanza senza volto che tende a depotenziare l’anima (o quel che resta) del Continente al fine di appropriarsi di risorse e ridurlo a terreno di libero scambio: un gigantesco suk tecnocratico, insomma.
La distruzione della sovranità degli Stati nazionali è stato l’obiettivo, del quale non si sono rese conto classi politiche che pure della nazione avrebbe dovuto curarsi, del processo iniziato con i Trattati di Maastricht (1992), di Amsterdam (1999), di Nizza (2000). Dov’erano all’epoca – soprattutto in Italia – quelle forze che oggi si dicono “sovraniste”? La loro voce non l’ha sentita nessuno, perché da essi nessuna concreta obiezione è venuta. “L’Unione europea – ha scritto anni fa Roberto de Mattei, uno dei più lucidi e coraggiosi intellettuali che si è posto tra i primi il problema che vediamo dispiegarsi drammaticamente , nel suo prezioso saggio La sovranità necessaria – presentata come una necessità economica, è stata in realtà una precisa scelta ideologica che corrisponde alla decisione di dissolvere gli Stati nazionali per sostituirli con nuove forme politiche… L’Europa è il continente in cui le nazioni sono le più differenziate fra loro… La sola Europa di cui si può parlare è quella delle nazioni, delle patrie, degli Stati. Una Europa che dissolva gli Stati nazionali di cui è composta è suicida, poiché è proprio da quelle nazioni che essa ha sempre ricevuto – e riceve tuttora – la vita e il nutrimento. L’Unione europea nata a Maastricht dissolve gli Stati europei senza crearne uno nuovo”.
Qual è l’obiettivo? La costruzione di un non-Stato, una cooperativa, una Ong nella migliore della ipotesi, priva di sovranità, potestà, potere decisionale. Un non-Stato policentrico votato alla distruzione degli Stati stessi piegati nella divisione regionalistica che li rendono ancora più deboli e poveri e irrilevanti.
«Gli sciagurati europei hanno preferito giocare ad armagnacchi e borgognoni, anziché farsi carico su tutto il globo della grande funzione che nella società della loro epoca i Romani avevano saputo assumere e sostenere per secoli. In confronto ai nostri, il loro numero e i loro mezzi non erano nulla; ma nelle viscere dei loro polli essi trovavano più idee giuste e coerenti di quante non ne contengano le nostre scienze politiche». Come non ricordare questo tagliente giudizio di Paul Valéry, ricordando la bocciatura del Trattato di Lisbona (firmato il 13 dicembre 2007) da parte dell’Irlanda un anno dopo e, dunque, del sostanziale fallimento del processo di costituzionalizzazione dell’Unione Europea, i cui principi agnostici ed anti-identitari ne hanno descritto la natura sostanzialmente antieuropea? Quasi tutti, allora, fecero finta di niente e istituzioni, classi politiche e burocrati si sono comportati come se nulla fosse accaduto.
C’è della follia in tutto ciò. Infatti, non ci si rende conto che l’Europa non c’è, ma quel che vediamo è soltanto un simulacro di unità continentale. Per di più nazioni come l’Italia si stanno letteralmente disfacendo, mentre dovrebbero essere il traino della costituzione europea. Lo spossessamento delle ragioni della nazione di fatto in egual misura colpisce l’Italia e l’Europa, l’una e l’altra sono destinate a diventare entità meramente economiche, funzionali a un disegno utilitaristico coerente con le logiche globaliste dominanti.
In questo quadro, la «regionalizzazione» dell’Europa, tendenza più spiccata in Italia e, forse, in Gran Bretagna, che per il momento ha abbandonato l’Unione europea, dove, unità subnazionali omogenee, per dirla con Ralf Dahrendorf, «si uniscono con una formazione sopranazionale retorica e debole», è foriera di conflitti interni agli Stati e di indecisionismo congenito negli stessi per ciò che concerne i rapporti esterni.
Insomma, dalla cessione di sovranità e dallo smembramento dello Stato in nome di un federalismo assolutamente inventato come esigenza storico-politica, non è scaturita quell’Europa Nazione che sola avrebbe potuto dare un senso all’unione dei popoli del Vecchio Continente, liberando gli Stati in una dimensione più grande e rendendo le diverse culture componenti organiche di una identità sulla quale fondare un aggregato geopolitico dalle dimensioni imponenti avente le caratteristiche e la forza di un impero.
Era ed è un sogno. Dopo Carlo V non vi è stata epoca nella quale non lo si sia coltivato questo sogno che si è infranto tra Maastricht e Bruxelles. L’idea della nazione europea non riuscirono a sbaragliarla le orde dell’Est e dell’Ovest che nel 1945 piantarono le loro bandiere sul corpo disfatto del nostro Continente. Non è stata vinta neppure dal più lungo e angoscioso dopoguerra che la storia ricordi, quando sull’Europa, e in particolare sulla Germania divisa, si addensarono tensioni politiche che più di una volta fecero temere il peggio. Non ha avuto ragione di essa neanche il colonialismo più volgare che sia stato dispiegato a danno di interi popoli. Non è venuta meno neppure quando sembrava che i cavalli dei cosacchi stessero per abbeverarsi nelle fontane di piazza San Pietro.
Da “Partecipazione”, n. 2 , luglio 2022