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Home Rassegna Stampa

Stenio Solinas/ “I due stendardi”, il capolavoro maledetto di Lucien Rebatet

di Redazione
7 Luglio 2021
in Rassegna Stampa
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Stenio Solinas/ “I due stendardi”, il capolavoro maledetto di Lucien Rebatet
       

Che cos’è I due stendardi, di Lucien Rebatet? È una di quelle grandi navi corsare, ben terzarolate per reggere meglio il vento, che solcano febbrili gli oceani letterari, la stiva piena di tesori sanguinosamente conquistati, la ciurma e il suo capitano pieni delle cicatrici di mille arrembaggi vittoriosi, di mille pericoli scampati. Nei momenti di bonaccia, si fa il racconto delle proprie vite, odi e amori, passioni profane e istanze religiose, gusti e disgusti, e si mette a giorno il bottino: c’è il romanzo sentimentale e quello psicologico, il feuilleton d’avventura e lo stream of consciousness, il narratore onnisciente e la terza persona, il diario intimo e lo scambio epistolare, la purezza della lingua, l’esplosione dell’argot…

Tutto è inventariato, eppure sapientemente mischiato e al termine della giornata il suo capitano può dire di sé, della sua nave, del suo equipaggio, delle sue ricchezze accumulate, quello che Céline diceva del Voyage au bout de la nuit: «C’è pane per un secolo intero di letteratura». Scritto negli anni Quaranta del Novecento, ambientato nei primi anni Venti, I due stendardi uscì quando fra nouveau roman, strutturalismo ed esistenzialismo si andava celebrando, per quanto un po’ troppo frettolosamente, la morte del romanzo tradizionale, la morte del cosiddetto «romanzo borghese». Classe 1903, Rebatet era uno stendhaliano nato in ritardo rispetto al proprio tempo, un ammiratore fervente di Proust e insieme un vero figlio della modernità novecentesca: dei suoi «ismi», futurismo, dadaismo, surrealismo, delle sue sperimentazioni d’avanguardia nella musica come nelle altre arti, pittoriche, cinematografiche… Tutto questo fa di I due stendardi un romanzo monstre, nel suo essere un romanzo epocale, il recupero intelligente della grande tradizione, Balzac e Flaubert, Dostoevskij e Tolstoj, fatto da chi sa ciò che è avvenuto dopo e quindi ne conosce i vicoli sbarrati e le nuove strade aperte, l’impossibilità di rifarsi strettamente a un genere, possedendo però tutti gli strumenti per farlo brillare a nuovo, eguale e però completamente diverso.

Così, la storia di un triangolo sentimentale, due ventenni, Michel e Régis, innamorati della stessa ragazza, Anne-Marie, sfugge a ogni trappola romantico-ottocentesca o sperimentalmente e sessualmente novecentesca perché le costruisce intorno un fondale dove vanno in scena i grandi temi dello spirito, dell’anima, delle visioni del mondo.

Michel, parigino d’elezione, è un wagneriano convinto e un anarchico cultore di Nietzsche; Régis, provinciale, lionese, compositore di suo, aspira alla santità, è un seguace di Sant’Ignazio di Loyola, vuole entrare nei gesuiti; Anne-Marie è una diciottenne seducente e non banale, che vede nella spiritualità e nella castità sofferta di quest’ultimo la via d’uscita da una carnalità che, appena adolescente, ha già conosciuto, ma che inclina più verso il suo stesso sesso che verso quello maschile. Il risultato, è una sorta di trattato sulle passioni: quanta razionalità esiste dietro scelte apparentemente irrazionali, come e perché si ama, fino a che punto è un sentimento e non un’ossessione, come lo si sublima e che cosa si è disposti a sacrificargli, come lo si può sporcare e perdere…

A corona di tutto c’è la giovinezza, che è poi il vero, grande tema del romanzo, l’età delle negazioni assolute e delle affermazioni sovrane, dei grandi giuramenti e delle amicizie eterne, l’unica dove nessuna grande impresa è ritenuta impossibile, nessuna umiliazione è irriscattabile, nessun pianto è disonorevole, si sogna a occhi aperti, si crede sempre e comunque che il destino ci appartenga, si è disposti a morire pur di non tradire la parola data, la propria immagine, la propria donna, il proprio credo, senza bene capire che in realtà è un’illusione: quando lo si comprenderà è troppo tardi, si è diventati adulti, la festa appena cominciata è già finita…

Vascello corsaro, dunque I due stendardi. E però vascello fantasma, di cui negli oceani letterari si parla, ma sottovoce, e che sono in pochi ad aver incrociato, circondato da una fama sinistra, oggetto di una maledizione neppure tanto misteriosa. Di troppi delitti si è macchiato Rebatet, il suo capitano, perché si possa stare lì ad ascoltarlo…

Qui bisogna uscire di metafora e andare al cuore del problema. Per tutti quei giudici che si ostinano a negarne la grandezza letteraria in nome dell’indegnità ideologica, Rebatet resta l’autore di Les Décombres, il più violento pamphlet antisemita pubblicato al tempo della Seconda guerra mondiale. A leggerlo oggi come un documento storico, salta subito agli occhi perché i fascismi persero quel conflitto. Erano internazionalmente provinciali. Pubblicato nel 1942, quando gli Stati Uniti sono già entrati nel conflitto e la Germania si è già impantanata in Russia, le 600 pagine della requisitoria del suo autore contro la decadenza francese irridono nell’avversario proprio ciò che di questi fa la forza: l’attesa di un aiuto esterno, la consapevolezza che le conquiste militari non bastano a tenere sottomesso un continente, che il proliferare di fronti bellici allontana la vittoria dell’Asse… Tanto il suo autore è efficace nel rovesciare sul lettore il come e il perché della disfatta del suo Paese (lo straordinario successo del libro sta anche in questo: mai la grandeur e l’orgoglio nazionali erano stati così fustigati da un connazionale, spietatamente analizzati e beffardamente ritratti), tanto è incapace di rendersi conto che la posta in gioco è globale, che fra terra e mare, schmittianamente parlando, ancora una volta è il dominio del secondo a fare la differenza, che lo scontro è totale, che non ci saranno prigionieri…

(…) Riuscitissimo nelle centinaia di pagine in cui racconta le miserie, le tragedie e la farsa di una Francia imbelle eppure vanagloriosa, di una sinistra oscillante fra tradimenti e trombonismi, di una destra maurrassiana incapace di aderire alla realtà, di un regime di Vichy fatto di generali con il monocolo, di una nazione che si scioglie come neve al sole davanti ai cingolati della Wehrmacht, Les Décombres è però un cimitero di previsioni sbagliate, di analisi raffazzonate, di odi feroci e gratuiti, di piccoli rancori e meschine vendette, di regolamenti di conti intellettuali da bistrot che il clima del tempo eleva purtroppo a chiamate di correo, a denunce scritte e sottoscritte.

È però in carcere che, in attesa di essere fucilato, Rebatet riprende in mano il dattiloscritto del romanzo a cui stava lavorando ormai da un paio d’anni, quel Les deux étendards che un critico come George Steiner ha definito «uno dei capolavori segreti della letteratura moderna, superiore a qualsiasi libro di Céline, escluso forse il Voyage». E che un cineasta come François Truffaut sarà solito regalare come pegno d’amicizia. Del resto, basta leggere le pagine in cui Rebatet descrive «le studentesse di Parigi», per capire da dove il regista di L’homme qui aimait les femmes abbia tratto l’ispirazione per la sua apologia delle gambe femminili, «compassi che misurano il globo terrestre».

Torniamo al carcere, alla condanna a morte e al dattiloscritto di Les deux étendards che gli sta facendo compagnia in cella. Inizialmente, gli aveva dato come titolo Ni Dieu ni Diable e così del resto era stato annunciato in Les Décombres: è però quello tratto da una citazione di Sant’Ignazio di Loyola che alla fine si impone.

Tramutata la condanna a morte in carcere a vita, ci lavora fino al 1949, un romanzo fiume di oltre 1300 pagine. Uscirà da Gallimard nel 1951, contribuirà a fargli finalmente aprire le porte del carcere, grazie alle pressioni di Gaston Gallimard, appunto il suo editore, e di Jean Paulhan, l’eminenza grigia della letteratura francese, viene oltralpe tuttora ristampato.

Stenio Solinas, dalla prefazione de “I due stendardi”, edizioni Settecolori 2021

Tags: Edizioni SettecoloriletteraturaLucien RebatetStenio Solinas
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