In Italia, sotto le tasse stramazziamo quotidianamente e ormai da tempo, ma dire che ne paghiamo troppe non è chic, parlare di soldi è, si sa, una cosa volgare, e chi ci governa fa orecchi da mercante, con in più la spocchia del moralista con uso di mondo. L’Europa, il pareggio, il debito, il patto di stabilità, l’equità, i sacrifici, sermoneggia un po’ tutta la classe dirigente, i periodi di vacche magre dopo quelli delle vacche grasse, e che sarà mai, non è mica colpa sua se ci sono così tanti evasori…
Mai come nella rappresentazione plastica di come si reagisca alla pressione fiscale c’è la chiave di cosa sia, al di là delle Alpi, uno Stato, e di qua, un’assemblea condominiale. Là c’è un presidente, un esecutivo, un’amministrazione, qua un governo che non governa, un Parlamento rissoso, i partiti e i sindacati, la magistratura ordinaria, le corporazioni professionali: tutti se ne stanno accampati come tanti eserciti in perenne conflitto.
C’è di più, ovvero quello che è il vero e proprio fiume carsico della nostra storia repubblicana: la diffidenza e/o il rifiuto da parte degli italiani della sfera pubblica, sentita come estranea nella migliore delle ipotesi, nemica nella peggiore. I sessant’anni che ci separano dalla nascita della Repubblica non sono riusciti a stabilire un rapporto fiduciario fra istituzioni e cittadini, fra l’amministrazione dello Stato e i diritti-doveri degli amministrati. A volte il linguaggio è più esauriente di qualsiasi esempio: nel Regno Unito, per citare un altro Stato degno di questo nome, si chiamano orgogliosamente civil servants quelli che da noi si definiscono sprezzantemente impiegati, in Francia il Grand Commis d’Etat è ciò che nello «Stivale» si trasforma in burocrate. L’idea del servizio pubblico è assente, la dignità e la grandezza nel lavorare per lo Stato sono considerate bizzarrie. Non c’è categoria esente dal sospetto o considerata affidabile. Dalla giustizia alle poste, l’italiano si chiede sempre da che parte stia il soggetto con cui ha a che fare: non lo sfiora mai l’idea che possa stare dalla parte del cittadino, cioè dalla sua.
Della grande triade rivoluzionaria che alla fine del Settecento decapitò un re e poi sconvolse l’Europa, liberté, égalité, fraternité, la prima e la terza parola sono sempre state per i francesi secondarie rispetto alla semplicità di quella eguaglianza che sanciva diritti e doveri per tutti, allo stesso modo. Il francese, ogni francese, contribuisce al mantenimento dello Stato perché sa che in cambio avrà diritto a ciò che uno Stato ben amministrato deve dargli. L’educazione e l’assistenza, i servizi e le opportunità. Se si sente leso nei suoi diritti, il francese, ogni francese, protesta, perché sente che dall’altra parte si sta venendo meno ai propri doveri. E dall’altra parte non lo si prende sottogamba, perché la storia insegna e la memoria è lì a ricordare.
Da noi i diritti e i doveri sono divenuti un’anticaglia mazziniana. Se il primo partito politico è, fuori dal Parlamento, l’astensionismo, e dentro quel Movimento Cinque Stelle che dei partiti si dichiara il nemico pubblico numero uno, si assiste al paradosso di un’opinione pubblica maggioritaria che è talmente sfiduciata nei confronti delle istituzioni da non pensare nemmeno che esse siano riformabili. Preferisce fare in proprio, «andare ai materassi», come diceva quel personaggio del Padrino: fare Stato a sé, risparmiare, resistere, evadere, in una logica tipicamente familista.
È anche per questo che i francesi fanno le rivoluzioni e le «comuni» e noi più modestamente le rivolte o, al massimo, le insurrezioni. Ci proponiamo traguardi minori, restiamo il Paese dai mille campanili. Lo aveva capito benissimo Mussolini, che fece la sua «marcia su Roma» in vagone letto e con i carabinieri a presidiare le stazioni. «O Roma o morte» aveva proclamato. Oggi possiamo dire di non essere mai andati oltre Orte.
di Stenio Solinas – Il Giornale, 03/11/2013