La vicenda di George Floyd, l’afroamericano brutalmente ucciso da un poliziotto bianco a Minneapolis il 25 maggio 2020, e la sua grande eco in tutto il mondo hanno drammaticamente riportato alla ribalta il problema della segregazione razziale nella società americana e la difficile condizione della minoranza di colore.
Quello di Floyd è solo un caso tra tanti, preceduto e seguito da molti altri con meno clamore mediatico e meno conseguenze ma non meno rilevanza, come la morte di Eric Garner, ucciso nello stesso modo da un poliziotto bianco a New York il 17 luglio 2014, ma passato quasi inosservato forse per la diversa situazione politica: in quel momento alla Casa Bianca c’era Barak Obama primo presidente afroamericano della storia, ma figlio della borghesia bianca e non della minoranza nera emarginata.
Un problema endemico, mai realmente risolto, vecchio quanto gli Stati Uniti stessi, i cui padri fondatori erano tutti proprietari di schiavi. Già Alexis de Tocqueville, nel suo celeberrimo “la Democrazia in America”, aveva individuato chiaramente i pericoli indotti dalla difficile condizione della minoranza nera: “mi sembra dunque che coloro che sperano che gli europei si confonderanno un giorno coi negri accarezzino una chimera”; il conflitto tra bianchi europei e i neri di origine africana deportati come schiavi era, secondo Tocqueville, alla lunga inevitabile tanto da costituire “il maggiore di tutti i mali che minacciano l’avvenire degli Stati Uniti”.
Una lunga storia, dunque, nella quale non sono mancati aspetti anche paradossali come insegna, ad esempio, la vicenda di Jesse Owens, il fenomenale campione vincitore di quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi del 1936, se osservata da una prospettiva diversa da quella usuale e politicamente corretta.
James Cleveland Owens detto Jesse, atleta americano di colore nato a Oakville in Alabama il 12 settembre 1913, vinse a Berlino le gare dei 100 e 200 metri, del salto in lungo e della staffetta 4×100 battendo gli atleti tedeschi e facendo infuriare Adolf Hitler il quale, umiliato in casa sua, si sarebbe rifiutato di stringere la mano al “negro” che aveva battuto i suoi campioni “ariani” ed avrebbe perciò abbandonato in preda alla rabbia l’Olimpiastadion.
Da quel giorno, o meglio da quel racconto, Jesse Owens diviene il simbolo americano della lotta al razzismo, almeno secondo la narrazione solitamente tramandata anche se la realtà dei fatti sarebbe un po’ diversa.
Nelle sue memorie – “The Jesse Owens Story, uscito nel 1970 – Il campione americano ricorda così l’episodio, avvenuto il 4 agosto 1936 al termine della gara di salto in lungo nella quale Owens aveva battuto il campione tedesco Luz Long: “Dopo essere sceso dal podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il Cancelliere tedesco mi fissò, si alzò e mi salutò agitando la mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Penso che giornalisti e scrittori mostrarono cattivo gusto inventando poi un’ostilità che non ci fu affatto”.
Il giorno prima Adolf Hitler, dopo essersi congratulato personalmente con due atleti finlandesi ed un tedesco per le loro vittorie, si era rifiutato di ricevere e stringere la mano all’afroamericano Cornelius Johnson, vincitore della gara di salto in alto. Il Comitato Olimpico non aveva apprezzato, facendo sapere al cancelliere che doveva trattare tutti nello stesso modo senza distinzioni né discriminazioni. Hitler aveva interpretato a modo suo l’invito del CIO: da quel momento e per tutta la restante durata dell’Olimpiade aveva evitato di congratularsi e di stringere mani, chiunque fosse l’atleta.
E’ questo, in realtà, il motivo della mancata stretta di mano tra Hitler e Owens, un comportamento certamente dettato da deprecabilissime motivazioni razziali ma che non era specificamente rivolto al campione americano che fu, peraltro, acclamato fragorosamente dal pubblico tedesco e festeggiato calorosamente dal suo avversario Luz Long che lo abbracciò e del quale Owens divenne amico (morirà il 14 luglio 1943 combattendo in Sicilia con la divisone “Hermann Göring”).
Ma per conoscere tutte le sfaccettature di questa storia più che a quel pomeriggio a Berlino bisogna rivolgere l’attenzione a quello che avvenne poi negli Stati Uniti, il paese in nome del quale Owens aveva trionfato all’Olimpiade diventandone il simbolo positivo.
“Hitler non mi snobbò affatto, fu piuttosto Franklin Delano Roosevelt che evitò di incontrami. Il presidente non mi inviò nemmeno un telegramma”, scrive ancora Owens nelle sue memorie. FDR era impegnato nella dura campagna elettorale del 1936, in quel momento piuttosto incerta, e non poteva permettersi di inimicarsi l’opinione pubblica degli stati del Sud ed i potenti notabili del suo partito, i cosiddetti Dixiecrats, che li governavano da sempre con politiche duramente segregazioniste. Qualunque segnale, anche minimo, di apertura sarebbe stato considerato, a sud della vecchia linea Mason-Dixon, un imperdonabile cedimento. Mostrarsi con un campione nero e celebrarne pubblicamente il trionfo sarebbe stato quindi un grave errore politico che Roosevelt evitò accuratamente ignorando del tutto Jesse Owens.
Paradossalmente il simbolo (involontario) dell’opposizione americana al razzismo tedesco una volta rientrato in patria era tornato ad essere un semplice “negro dell’Alabama” e come tale lui stesso vittima, come milioni di altri afroamericani, del razzismo dei bianchi e della segregazione razziale.
L’opportunismo di Roosevelt non fu certo né l’unico né il maggiore problema che Owens dovette affrontare a causa della situazione razziale del suo paese. “Dopo tutte quelle chiacchiere su Hitler ed il suo disprezzo, sono tornato nel mio paese ma sull’autobus non mi potevo sedere liberamente, ero obbligato a restare nella parte posteriore. Non potevo vivere dove volevo. E allora quale sarebbe la differenza?” osserva nella sua autobiografia.
Arrivato New York per la tradizionale tickertape parade degli eroi americani, fu inviato come ospite d’onore ad un ricevimento al Waldorf Astoria, ma per accedervi dovette salire con il montacarichi perché l’ascensore era riservato ai bianchi. Episodio ben rappresentato nel film “Race – Il colore della vittoria” del 2016 che ricostruisce la vicenda di Owens.
Tornato alla dura realtà di una società segregazionista, il campione olimpico dovette adattarsi ai lavori più umili per mantenere la moglie Ruth e le tre figlie, raggiungendo solo nel dopoguerra una certa tranquillità economica. Riuscì a votare per la prima volta solo nel 1968, a 55 anni; solo nel 1976 (40 anni dopo Berlino) ricevette da Gerald Ford la Presidential Medal of Freedom e nel 1990, 10 anni dopo la sua morte, George W. Bush gli assegnò, postuma, la Congressional Gold Medal, la più alta onorificenza civile americana.
SEPARATI MA UGUALI
Gli Stati Uniti, sensibilissimi ai diritti altrui fuori dai loro confini, restavano profondamente razzisti a casa loro. Nel 1896 la Corte Suprema con la sentenza Plessy vs Ferguson aveva definitivamente sancito la legittimità della segregazione razziale secondo la dottrina del “separate but equal” (separati ma uguali), favorendo l’emanazione di leggi (le cosiddette Jim Crow Laws) e prassi che l’avevano estesa rapidamente a tutto il paese ed a tutti i settori della società.
Negli anni ’30 del Novecento, a 70 anni dal proclama di Lincoln che aveva abolito la schiavitù, gli afroamericani si trovavano ancora in condizioni di profonda sottomissione ed erano ben lontani dal conquistare effettivi diritti civili, i diritti politici e la parità con i bianchi. A Sud la minoranza di colore viveva in condizioni miserabili, segregata, in miseria e senza diritti; al Nord e nell’Ovest la situazione era migliore, ma non più di tanto: i neri erano una forza lavoro a basso costo, potevano vivere solo nei ghetti delle grandi città industriali, frequentavano scuole ed ospedali separati ed erano lontanissimi dal riconoscimento di uguale dignità con i bianchi.
La Baseball Color Line, la regola non scritta che impediva ai giocatori di colore di giocare nella Baseball Major League, ad esempio, venne infranta solo nel 1947, quando Jackie Robinson fu ingaggiato dai Dodgers e divenne, non senza problemi, il primo giocatore professionista di colore del baseball (la vicenda è narrata nel film “42 – La vera storia di una leggenda americana” del 2013).
Un anno più tardi, il 26 luglio 1948, il presidente Harry Truman firmò l’Ordine Esecutivo 9981 col quale poneva fine alla segregazione nelle forze armate, formalmente iniziata nel 1863 con la creazione nell’armata Unionista delle United States Colored Troops.

Che l’esercito dei liberatori praticasse per legge la discriminazione razziale è un fatto spesso ignorato (anche su questo tema esiste un bel film, “Storia di un soldato” di Norman Jewison uscito nel 1984), ma di fatto gli afroamericani si ritrovavano a combattere all’estero per ristabilire diritti dei quali non potevano godere in patria. “Dovrei sacrificare la mia vita per poi rimanere sempre Americano a metà?” scrisse al Pittsburgh Courier nel 1942 James G. Thompson, un ventiseienne soldato di colore, sintetizzando perfettamente la situazione.
I Buffalo Soldiers, come erano soprannominati i reparti afroamericani comandati da ufficiali bianchi, venivano solitamente utilizzati come bassa forza con pesanti e poco gratificanti compiti di supporto, salvo pochissime eccezioni. Una di queste fu la 92ª Divisione di Fanteria “Buffalo”, che fu impiegata in combattimento sul fronte italiano lasciando una traccia profonda nell’immaginario collettivo di allora, dalla Tammuriata Nera alle vicende della Pineta di Tombolo.
Bisognerà invece aspettare il 1954 perché la Corte Suprema con la storica sentenza Brown vs Board of Education dichiari incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche, ma per fare rispettare questo principio tre anni dopo, nel 1957, il Presidente Eisenhower sarà costretto, non senza esitazioni, a mandare a Little Rock, in Arkansas, la 101° Divisione Aerotrasportata.
Saranno i paracadutisti, le Screaming Eagles dello sbarco in Normandia (ma con reparti formati per l’occasione solo da soldati bianchi) a permettere a nove adolescenti afroamericani di accedere alla Central High School rimuovendo il blocco della locale Guardia Nazionale che per ordine del governatore democratico Orval Faubus presidiava l’ingresso della scuola per impedire con ogni mezzo l’accesso ai ragazzi di colore, che dovettero essere protetti anche dalle minacce degli studenti bianchi e dei cittadini segregazionisti.
Il problema dei posti a sedere sugli autobus citato da Jesse Owens sarà superato grazie al coraggio di Rosa Louise Parks, una sartina di Montgomery in Alabama, che 1° dicembre 1955 si rifiuta (come già aveva fatto qualche mese prima con meno clamore la giovane Claudette Colvin) di cedere il posto ad un passeggero bianco e che per questo viene arrestata. Il fatto darà vita al Montgomery Bus Boycott, un atto di pacifica disobbedienza civile durato ben 382 giorni e cessato solo il 13 novembre 1956 con la conferma da parte della Corte Suprema della decisione della Corte Distrettuale (sentenza Browder vs Gayle) che aveva stabilito che la segregazione razziale sugli autobus violava la Costituzione americana.
La sentenza diventa esecutiva il 20 dicembre 1956 e quel giorno, alle 5,55, il giovane pastore battista Martin Luther King jr sale sul primo autobus assieme al collega Ralph Abernathy, ad Edgar Nixon, animatore del boicottaggio, e a Glenn Smiley, un sacerdote bianco che si siede al suo fianco.Solo nel 1961, però, e solo per l’intervento diretto del presidente Kennedy la Interstate Commerce Commission recepirà formalmente in un regolamento federale il divieto di discriminazione nell’assegnazione dei posti a sedere sui mezzi pubblici.
I HAVE A DREAM
La strada verso l’emancipazione sarà ancora lunga, costerà molti sacrifici e anche molte vite umane. Il 28 agosto 1963, 100 anni dopo il proclama di Lincoln, Martin Luther King dopo essere riuscito a riunire per la prima volta tutte le organizzazioni dei diritti civili (solo Malcolm X si era dissociato) guida la celeberrima “Marcia per il lavoro e la libertà” che raduna oltre 200.000 persone al Lincoln Memorial di Washington con lo scopo di promuovere l’approvazione di leggi federali che rendano effettivi i diritti civili della minoranza di colore e ne promuovano le condizioni sociali.
Il presidente Kennedy, temendo scontri, aveva fatto presidiare la capitale da 4.000 uomini della Guardia Nazionale mettendo in preallarme 15.000 paracadutisti di stanza in North Carolina, mentre Edgar J. Hoover aveva posto sotto sorveglianza il reverendo King e il suo staff. Tutto però fila liscio e dal palco sul quale poco prima Bob Dylan aveva cantato “Only A Pawn In Their Game”, Joan Baez “We shall overcome” e Peter Paul and Mary “Blowin’in the wind”, Martin Luther King pronuncia un discorso memorabile che passerà alla storia: “I have a dream” sono le sue prime parole.
I leader della protesta vengono ricevuti alla Casa Bianca da John Kennedy e dal vice presidente Lyndon Johnson; sarà quest’ultimo, divenuto presidente, ad accogliere l’appello della Marcia facendo approvare nel 1964 il Civil Rights Act e il Voting Rights Act promulgato l’anno successivo dopo i fatti di Selma. Qui, in Alabama, il 7 marzo 1965 in quella che sarebbe poi stata ricordata come Bloody Sunday 600 pacifici dimostranti in marcia verso Montgomery, la capitale dello Stato, vengono bloccati sull’Edmund Pettus Bridge dalla Polizia e da civili bianchi che li pestano a sangue provocando decine di feriti.
La manifestazione era stata organizzata da Amelia Boynton Robinson e da suo marito, che avevano fondato la Dallas County Voters League (DCVL) per promuovere la registrazione degli elettori neri e rendere così effettivo il loro diritto di voto sfidando il governatore democratico George Wallace. Le cruente immagini dei pestaggi fanno il giro del mondo; il martedì successivo i manifestanti, divenuti nel frattempo 2.500 e ora guidati da Martin Luther King, ritentano ma si fermano spontaneamente per un’ordinanza restrittiva. Finalmente il 16 marzo il giudice federale Frank Minis Johnson jr stabilisce che il diritto di manifestare marciando in gruppo lungo le strade pubbliche è garantito dal primo emendamento della Costituzione e non può essere limitato in alcun modo dalle autorità locali.
Così il 21 marzo con la protezione della Guarda Nazionale, posta agli ordini del governo federale, del FBI e del U. S. Marshals Service 8 .000 manifestanti possono finalmente oltrepassare il ponte ed imboccare la U.S. Route 80 verso Montgomery, dove arriveranno il 25 marzo in 25.000 per ascoltare un altro famoso discorso del reverendo King. Il 6 agosto 1965 il Voting Rights Act, presentato al Congresso dal presidente Johnson il 15 marzo precedente proprio sulla spinta di quello che era accaduto a Selma, diventa legge. Anche questa vicenda è stata narrata da un film: “Selma – La strada per la libertà” di Ava DuVernay. Nel 1968 sarà un’altra Olimpiade, 32 anni dopo l’impresa di Jesse Owens a Berlino, a riproporre platealmente all’opinione pubblica mondiale, ma a parti invertite, il problema del razzismo negli Stati Uniti.
A Città del Messico due atleti di colore Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente medaglia d’oro e di bronzo nella gara dei 200 metri, intenzionati a richiamare l’attenzione sul problema dei diritti civili della minoranza afroamericana, salgono sul podio a piedi nudi alzando il pugno chiuso avvolto in un guanto nero nel saluto delle Black Panthers, il movimento politico che voleva ottenere la liberazione della minoranza nera attraverso la lotta armata. Una provocazione clamorosa, cui segue una reazione durissima: i due atleti vengono immediatamente cacciati dalla squadra americana ed espulsi dal villaggio olimpico. Smith, primo uomo a scendere sotto i 20’’ nei 200 metri, e Carlos sono costretti ad abbandonare l’atletica (il record mondiale di Smith, 19″83, resisterà sino al 1979 quando verrà battuto dal 19″72 di Pietro Mennea).
Rilevante è il tributo di sangue pagato negli anni ad ogni livello. Da semplici militanti – come Jimmie Lee Jackson, James Reeb e Viola Liuzzo uccisi nelle giornate di Selma, o Andrew Goodman, James Chaney e Michael Schwerner i tre attivisti dei diritti civili uccisi e fatti sparire nel 1964 nella contea di Jessup (Mississippi) la cui storia è stata raccontata dal film “Mississippi Burning” di Alan Parker nel 1988 – ma anche dai leader dei movimenti come Medgar Wiley Evers, capo della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP), ucciso a Jackson (Mississippi) il 12 giugno 1963 da un attivista del Ku Klux Klan condannato solo 30 anni dopo, o i più noti Malcolm X, assassinato ad Haarlem da altri neri il 14 febbraio 1965 in una specie di regolamento di conti, George Jackson, ucciso nel Carcere di San Quintino il 21 agosto 1971, fino al misterioso assassinio, rimasto senza colpevoli, di Martin Luther King a Memphis il 4 aprile 1968.
LE DISUAGLIANZE RESTANO E LE RIVOLTE DILAGANO
Nonostante i progressi formali e le lotte l’obiettivo delle equal opportunities non è mai stato raggiunto e le disuguaglianze nella società americana non solo non sono mai state eliminate ma anzi si sono aggravate peggiorando la condizione degli afroamericani, l’anello più debole della catena sociale, costretti a subire le conseguenze dell’impoverimento della classe media bianca da una parte e la concorrenza della minoranza ispanica dall’altra.
Ancora oggi la grande maggioranza dei neri americani vive in quartieri separati e sempre più emarginati, tutt’ora soggetti alle mai cessate pratiche (di fatto segregazioniste anche se motivate da ragioni economiche) del cosiddetto “redlining”, vale a dire la scelta di mantenere invariata la composizione etnica e sociale dei quartieri concentrando le fasce più povere in zone ben delimitate indicate sulle mappe col colore rosso e a volte separate anche fisicamente dagli altri quartieri, come nel caso del famoso Birwood Wall di Detroit.
Il reddito medio degli afroamericani è inferiore del 61% rispetto a quello dei bianchi con un tasso di disoccupazione quasi doppio. Poco meno di un quinto dei giovani neri tra i 16 e i 24 anni non studia né lavora ma ha molte probabilità di finire in prigione: il tasso di carcerazione dei maschi afroamericani e di 4.919 detenuti ogni 100.000 abitanti, a fronte di 717 per i bianchi; gli afroamericani sono circa il 50% della popolazione carceraria degli Stati Uniti pur rappresentando solo il 12,3% della popolazione complessiva; nel 2010 una commissione del Congresso ha rilevato che i neri americani vengono condannati a pene mediamente più lunghe del 10% rispetto ai bianchi; secondo il Dipartimento alla Giustizia i maschi afroamericani nati nel 2001 hanno il 32% per cento di possibilità di finire in galera durante la loro vita contro il 6% dei coetanei bianchi.
Nascono da qui, dal disagio e dal degrado, le rivolte violente che da oltre un secolo infiammano periodicamente le città americane mescolando rabbia sociale e rivendicazioni civili.

Dagli incidenti di East St. Louis (Illinois), provocati dalla concorrenza per i posti di lavoro tra operai neri e bianchi, che nel luglio 1917 costarono la vita a 9 bianchi e 39 neri (ma si dice in realtà più di 100) e dalla “red summer” del 1919, che per lo stesso motivo in 13 giorni provocò a Chicago 38 morti, 537 feriti e migliaia di senza tetto tutti afroamericani, fino ai gravissimi fatti di Tulsa (Oklahoma) dove tra il 31 maggio e il 1° giugno 1921 una delle più floride comunità nere del paese, fu assalita brutalmente, persino con gli aerei, da una folla armata di bianchi, molti dei quali dotati allo scopo di poteri di polizia, che bruciò e rase al suolo i 35 isolati del quartiere nero di Greenwood, la Wall Street Nera, lasciando senza tetto 10.000 neri.
Il bilancio ufficiale parla ancora oggi di 39 morti (26 neri e 13 bianchi) oltre ad 800 feriti e 6.000 neri internati in campi di detenzione, ma quello effettivo si aggira sui 300 morti di colore, finiti in fosse comuni nascoste e cancellate dalle quali solo oggi vengono finalmente riesumati insieme alla loro storia, anch’essa sepolta e dimenticata per un secolo. Nel solo 1943, in piena guerra, le rivolte razziali furono ben 240 – tutte collegate alla grande migrazione dei neri verso le industrie del nord a causa dalle esigenze belliche – la più grave delle quali tra la sera del 22 giugno e la mattina del 24 provocò a Detroit la morte di 25 neri (17 dei quali uccisi dalla polizia) e 9 bianchi, 433 feriti e 1.800 arresti.
Poi le grandi rivolte degli anni 60: da quella di Watts, sobborgo nero di Los Angeles, che per sei giorni dall’11 al 16 agosto 1965, mise a ferro e fuoco la periferia di Los Angeles con un bilancio di 34 morti, 1.032 feriti, 3.438 arresti e per reprimere la quale furono necessari 14.000 uomini della Guardia Nazionale e 2.000 poliziotti; ai 163 scontri razziali della cosiddetta “long hot summer” del 1967, una sequenza iniziata a Newark (NJ) il 12 luglio (26 morti, 700 feriti, 1000 arresti) e culminata nei 5 giorni (23-28 luglio) della violentissima rivolta di Detroit, con l’intervento di 9.000 uomini della Guardia Nazionale, di quasi 5.000 paracadutisti della 82^ Airborne Division e 7.200 arresti, 1.200 feriti, 43 morti (33 dei quali neri) 1.700 negozi saccheggiati e 1.400 edifici bruciati.
Per arrivare, infine, ai disordini di Miami negli anni ’80 (1980, 1982 e 1989), alla gravissima sommossa di Los Angeles per il caso di Rodney King (63 morti, 2.383 feriti, più di 12.000 arresti e 4.000 edifici distrutti) nel 1992 fino ai disordini di Ferguson (Missouri) del 2014 per il caso Michael Brown e a quelli recentissimi di Minneapolis per il caso George Floyd, i più gravi dal 1992.