Nel suo più che lodevole lavoro perché misurato senza essere altisonante e soprattutto enfatico, Dino Messina (Italiani per forza. Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfare) ha curato di ripercorrere la via e l‘attività di uomini politici, di “maestri” immeritatamente accantonati.
Uno di questi è l’abruzzese Silvio Spaventa. Su di lui (1822 – 1893), fratello minore del filosofo Bertrando, cugino e tutore di Benedetto Croce, v. la “voce” in “Dizionario biografico degli Italiani”, vol.XCIII (2018), curata da Silvio Cammarano. Per la sua attività antiborbonica, fu condannato a morte, pena poi tramutata nel 1852 all’ergastolo, fu relegato nell’isola di S. Stefano e nel 1859 in esilio perpetuo. Tornato a Napoli nel 1860 si adoperò per la nuova svolta.
Vicino ma distinto dal romagnolo Luigi Carlo Farini, Spaventa rimane tra i qualificati esponenti di quell’élite impegnata ed ispirata al progetto moderato quanto lucido di Cavour e di Vittorio Emanuele II. A Spaventa non può mai essere sottratto il merito di aver guardato e attuato a misure volte a battere la dilagante camorra con epurazioni e con dure ed intransigenti retate.
Della sua linea è prova una serie di rapporti, informati ed utili. Il primo fu una epurazione degli uffici pubblici, a cominciare dalla dogana, in cui era stata lamentata una forte infiltrazione malavitosa. Il secondo passo, in cui fu impegnato il prefetto Filippo De Blasio, fu l’individuazione degli aderenti alla setta, impegnata nel taglieggiare i quartieri di Napoli e ad esigere “il barattolo”, cioè il pizzo imposto a tutte le attività. Un’ulteriore lezione incisiva, utile e da conservare è impartita da Spaventa nel pacchetto repressivo della legge antibrigantaggio dell’aquilano Giuseppe Pica (1813 – 1857), promulgata il 15 agosto 1863.
Non sono davvero cancellate attenzione e si potrebbe ben dire costante e tradizionale cura verso la camorra, cui fu portata attenzione senza esagerazione quotidiana. Non dobbiamo perdere Spaventa e lo dobbiamo preservare sostenitore di uno Stato forte ma non autoritario, fautore di una aperta separazione della sfera politica da quella amministrativa e su questo terreno plasmò una giustizia inalterata per tutto il secolo.
Celebri e indelebili rimangono le parole pronunziate nel discorso inaugurale della IV sezione del Consiglio di Stato: “Queste guarentigie di libertà e di imparzialità sono diventate un bisogno tanto imperioso in quanto l’Amministrazione dello Stato vuole essere tutelata al possibile dagli influssi dello spirito di parte che ne corrodono le forze e ne alterano il fine più essenziale e benefico: quello di non essere più un’amministrazione di classe, ma eminentemente sociale e rivolta al bene comune”.
Conserviamo e curiamo figure di questa sensibilità, tale da vincere le tante ombre di oggi e del mondo in cui viviamo.