Daniela la riconoscevi subito in ospedale, a Vigevano: era quella dottoressa, non più giovane, che girava con un piccolo trolley per i corridoi dei reparti. Non so perché avesse scelto di fare il medico, molte volte i motivi sono inconfessabili, talvolta si sceglie medicina solo perché il proprio padre possa sentire il proprio figlio essere chiamato “dottore”, perché lui non aveva potuto permettersi alcuno studio.
Ma Daniela era andata oltre, aveva anche scelto di specializzarsi in anestesia e rianimazione, la più difficile tra le specialità, quella che ti permette di essere un cardiologo ed un pneumologo, contemporaneamente, con appresso la manualità di un chirurgo. Il rianimatore vive una vita propria, può trascorrere più giorni senza mai vedere la luce del sole, perché entra in reparto all’alba e ne esce che è già sera, i suoi turni estenuanti sempre sotto la luce del neon. Non parla quasi mai con i suoi pazienti, che sono sedati o in coma in terapia intensiva, o addormentati in sala operatoria; quando finalmente migliorano non li vede più e nessuno sarà riconoscente alle sue cure.
Daniela aveva preso sul serio la sua professione, era curiosa, voleva sempre migliorarsi e forse aveva paura di non essere talvolta all’altezza. Infatti custodiva nel suo trolley alcuni inseparabili manuali di anestesia e rianimazione, da poter consultare nei momenti di difficoltà. In sala operatoria parlava con i chirurghi per farsi spiegare la dinamica dell’intervento, per capire se ci fossero eventuali imprevisti. Talvolta faceva pesare la sua superiorità tecnica, irritava con commenti critici colleghi che comunque erano disposti a tollerare i suoi sfoghi, mirati sempre a fare bene. Fare bene appunto, essere inattaccabile, dare l’esempio, da donna libera. Ma Daniela viveva da single, la sera quando tornava a casa e chiudeva la porta non c’era nessun saluto ad accoglierla.
Poi un anno fa arrivò il Covid19, il grande nemico, che si abbatté come uno tsunami anche sull’ospedale di Vigevano. I malati giungevano in terapia intensiva uno dietro l’altro, intasando il reparto, gravissimi, in condizioni difficili o addirittura disperate, con una patologia che non si sapeva come affrontare. Morivano tutti, nessuno si salvava. I medici si sentivano impotenti, frustrati, stravolti dalla fatica e dagli scarsi risultati. Daniela era come tutti, una lottatrice che combatteva senza riuscire a sconfiggere il male; tutta la sua esperienza e le sue conoscenze di una vita in trincea, rese inutili, obsolete. E poi la paura di ammalarsi, di trovarsi nella stessa condizione di quei malati che vedeva asfissiare senza poter fare niente.
Tornava a casa e non c’era nessuno con cui sfogarsi, a cui rendere conto della sua disperazione. In ospedale non poteva mostrare le sue debolezze, in casa avrebbe voluto farlo, per potersi scaricare di tutte le tensioni accumulate. Aveva letto di una sua collega rianimatrice, coetanea, single, che a New York si era sparata alla tempia e l’aveva fatta finita. Ma gli americani hanno quasi tutti una pistola in casa, per loro è relativamente semplice.
Intanto in ospedale la situazione non migliorava, anzi mancavano i respiratori, mancava l’ossigeno, mancava la morfina. Daniela si sentiva improvvisamente inadeguata, proprio a fine carriera, quando ormai aveva acquisito quel senso di onnipotenza che spesso restituiva alla vita pazienti ritenuti in condizioni disperate. I suoi manuali, nel suo trolley portafortuna, apparivano improvvisamente di nessun aiuto, sorpassati da quei fatti devastanti. Daniela si convinse che era arrivato il momento di togliere il disturbo, di chiedere scusa di quella sconfitta, quasi che appartenesse solo a lei.
Una sera, a fine turno, entrò nella farmacia deserta della terapia intensiva, il suo regno, dove aveva pieno potere. Sottrasse dai cassetti alcuni farmaci, potenti sedativi, che una rianimatrice esperta come lei sapeva usare. Tornò a casa, chiuse la porta dietro di sé per l’ultima volta e si gettò sul letto, per quel sonno da cui non ci si risveglia.