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Storie italiane/ Napoli 1944, il peso della sconfitta e il calvario di un popolo

di Eugenio Pasquinucci
15 Marzo 2018
in Home, Libri&LIBERI
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Storie italiane/ Napoli 1944, il peso della sconfitta e il calvario di un popolo
       

Questo è un racconto che scrisse mio padre nei tremendi giorni del 1944 a Napoli. «Malattie e tifo petecchiale avevano lasciato il segno soprattutto nei quartieri più poveri. Anche la sifilide stava dilagando in modo impressionante.

Le stesse autorità militari americane s’erano viste costrette ad aprire i loro centri di cura anche ai civili italiani perché era apparso chiaro che solo agendo in tal modo si poteva arginare l’infezione. Le malattie fungine e le malattie da parassiti ( pediculosi, scabbia, ecc.) erano talmente frequenti da non meritare neppure l’opportunità di una cura.

Non so come , ma qualcuno venne a sapere che m’interessavo di medicina e che avevo qualche esperienza, sia pure a livello studentesco. Ciò era considerato importante in una città dove medici e medicina s’erano rarefatti e dove il loro bisogno aumentava sempre più. Rimasi pertanto esitante il giorno in cui un ragazzino di una decina d’anni , che vendeva sigarette nei pressi del mio ufficio, mi disse :” La mia mamma sta male. Tiene ‘na brutta piaga. Vieni a medicarla.”

E’ difficile resistere a un richiamo coì toccante, è impossibile dire di no, soprattutto quando si sa che non vi sono altre possibilità. Presi un po’ di materiale da medicazione e m’incamminai verso la casa di quel ragazzo. Vi arrivai di sera, nell’ora tarda e greve quando le porte dei tuguri si serravano e lasciavano intravedere le luci tremanti delle candele. La folla di Chiaia s’era già diradata : le donne che solitamente s’accalcavano sui gradoni, se n’erano già andate scomparendo negli antri delle loro case. Durante le ore del giorno questa via era un rimbombo di strilli, di lazzi, di urla, di parole oscene, un rincorrersi di ragazzini e di donne, un gesticolare e un dimenarsi da corte dei miracoli.

Ora cominciava il silenzio, cominciava l’ora in cui anche i tuguri più angusti e più tetri apparivano pur sempre un rifugio per quegli sbandati e quei poveretti che non avevano una tana dove ripararsi. Cominciava il buio torvo e lugubre dei quartieri poveri, dove si camminava timorosi rasentando i muri scrostati, investiti ogni tanto dai miasmi dei muri inzuppati di urina oppure dall’odore acro dell’olio fritto. Ma pochi potevano permettersi i cibi fritti e questi pochi lasciavano aperta la porta del basso per far defluire il fumo delle padelle o per far notare agli altri la loro prosperità.

Mi presi per mano il ragazzino e allungai il passo : gli ultimi passanti si lasciavano scavalcare guardando ingelositi lo scugnizzo che si era accaparrato l’americano.

Entrammo in un vicolo secondario ancora più stretto. Qui il ragazzino si fermò davanti alla porta : scese alcuni gradini e mi fece segno di entrare. La porta era costituita da alcune assi tenute insieme da liste di legno. Appena entrato fui investito da un fetore insopportabile, da un tanfo mozzafiato reso più allucinate dal buio e dalla povertà dell’ambiente. Il giovanetto accese una candela al cui lieve chiarore scorsi una donna distesa su una brandina : i capelli neri, lunghi, che coprivano parte del viso e si scomponevano nel letto. Il suo pallore metteva maggiormente in risalto il grigio delle occhiaie, l’incavo delle guance, il mento aguzzo e sottile. Non c’era più nulla di leggiadro in quest’essere ancora giovane distrutto dal male e dagli stenti. Era rimasta solo un’espressione triste , accorata, di riconoscente attesa verso chi veniva ad aiutarla.

Ero quasi a disagio nell’affrontare lo sguardo di questa poveretta, uno sguardo dolce e melanconico, di desolata sottomissione, uno sguardo ormai spento e sottratto alla speranza.

“Che avete ?”

“E’ un mese che questa piaga s’ingrandisce sempre più. Mi dicono che non c’è niente da fare e mi hanno abbandonata.”

Così dicendo si distese sul letto e spostò adagio la coperta. La luce della candela illuminò dapprima il petto scarno e ossuto, con le mammelle ormai avvizzite e ridotte ad una piega cutanea flaccida e cascante. Ma subito mi apparve sul basso addome una enorme piaga, un vero cratere che dal pube si estendeva alla coscia sinistra devastando la regione inguinale. Avvicinai la candela sulla ferita per illuminarla meglio : rivoli di umore giallo verdastro le scendevano lungo i fianchi e si perdevano sul lenzuolo sottostante.

Un tanfo intollerabile, l’odore acre e pesante della carne marcia, del putridume.

Guardando meglio ebbi una sensazione strana, la sensazione che la ferita si muovesse, che qualcosa ribollisse, come il gorgogliare di una pentola di fagioli. L’attribuii al movimento della luce, a quel chiaro-scuro ondeggiante che la luce fioca di una candela provoca sugli oggetti che illumina.

Avevo sottratto 50 grammi di acido borico e alcune garze al pronto soccorso del P.W.B. . Riversai l’acido borico in un fiasco d’acqua per farne una soluzione il più possibile antisettica ; mi lavai le mani su un vecchio lavabo di ferro e feci per iniziare la medicazione. Appoggiai la mano sul pieno della piaga e sentii che la mano affondava, sprofondava in una massa di liquame vivo. Quando la ritirai mi accorsi che era piena di vermi. Una manciata di vermi piccoli ,biancastri, che si muovevano, si dibattevano, mi sfuggivano tra le dita, mi cadevano a terra. Non sapevo dove gettarli perché non c’erano recipienti. La ripugnanza ha i suoi limiti ; chiusi gli occhi per non vedere e aprii la mano facendoli cadere a terra. Ritornai sulla ferita e ne trassi un’altra manciata di vermi, poi un’altra ancora. Ai miei piedi si accumulava un mucchio biancastro, informe, in lento movimento, un ammasso di vermi che si distendeva e si agitava con aspetti fosforescenti.

Questa donna si disfaceva e si imputridiva prima ancora di morire. La sua carne si consumava come fosse già morta, come se fosse parte estranea del suo corpo. Gli zigomi umidi di sudore e di febbre sembravano luccicare , le sue mani scheletriche avevano ancora il vezzo di riavviarsi dolcemente i capelli. Forse questo suo movimento delle mani mi richiamò alla realtà : stavo medicando una persona viva e non un cadavere decomposto. Era una persona viva giunta al livello più estremo dell’indigenza, dell’abbruttimento, nella solitudine. Per abbreviare la medicazione riversai sulla piaga l’acqua borica fino a detergere le carni, finché non apparve il bianco dell’osso pubico e dell’osso ischiatico. Ora la ferita ripulita era ancora più ampia, più crudele, più scostante. La ricoprii con tutte le garze che avevo.

“Vi ho fatto male ?”

“Solo ‘nu poco…”

Mi ritrassi dal letto e mi venne istintivo di gettare lo sguardo nel punto dove avevo lasciato cadere i vermi.

Ora non c’era più nulla. Rimasi interdetto. Stavo per chiedermi com’era possibile che fossero spariti quando vidi uno strano movimento di code: un fuggi-fuggi di topi che si allontanavano dopo aver divorato i vermi, tutti i vermi che erano per terra. Quando tornai sulla strada sentii il bisogno di respirare per qualche minuto: solo così riuscii a reprimere la nausea».

Guido Pasquinucci “Il Quarantatre”.

Tags: Napolistoria
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