Il 20 luglio 1993, Gabriele Cagliari, emiliano di Guastalla, 67 anni, presidente dell’Eni, incarcerato per la “maxitangente” al centro del processo Enimont-Cusani (capitolo centrale, e terminale, dell’inchiesta di Mani Pulite), si suicidava nel carcere milanese di San Vittore (luogo eletto alla detenzione degli indagati dal pool), asfissiandosi con un sacchetto di plastica.
Il funerale si tenne il 23 luglio, esattamente trent’anni fa, nella basilica di San Babila; nella stessa mattina, a poche centinaia di metri, il maggiordomo di Palazzo Belgioioso trovava il cadavere del padrone di casa, Raul Gardini, romagnolo di Ravenna, 60 anni, ex presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison e rivale di Cagliari nell’affare “Enimont” (il contratto, o “joint venture”, per il controllo della chimica in Italia fra l’Eni – pubblica – e la Montedison – privata – mediato da Sergio Cusani, già consulente di Serafino Ferruzzi, suocero di Gardini); suicidatosi (le ipotesi d’omicidio, a carico non si sa di chi, si sono sempre rivelate fragili) in vista dell’incriminazione per la “maxitangente” (che Bettino Craxi, interrogato dal PM Antonio Di Pietro cinque mesi dopo, definirà in diretta televisiva “una maxiballa”). Vi era di peggio: Gardini aveva di che paventare che le indagini risalissero all’interesse di Cosa Nostra (allora nella fase di maggior potenza, e al parossismo della violenza) per la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi; ma in più punti del libro la responsabilità della rovina di Gardini è attribuita a Enrico Cuccia, a Ciriaco De Mita e a Carlo Sama, trattando il coinvolgimento dell’imprenditore-velista in Tangentopoli quasi come un incidente ulteriore, un colpo tardivo e non letale.
Geniale, intraprendente, coraggioso, folle, colto, sportivo, elegante, bello come un divo del cinema: Raul Gardini è stato un personaggio esagerato, nella grandiosità delle visioni, nella vastità dei progetti e degli interessi, e nella caduta rovinosa. Già negli anni ’80 aveva studiato i problemi ecologici – dall’urgenza di sostituire i combustili fossili ai cambiamenti del clima – con una profondità e capacità di lettura e analisi il cui paragone con la pochezza, la superficialità e l’ottusità d’un fenomeno di propaganda commerciale come l’ecologismo (attenzione: non ecologia) di quarant’anni dopo (dall’isteria dei “Fridays for Future” all’incommensurabile idiozia dei lanci di vernice sulle opere d’arte) sarebbe quanto meno impietoso.
Nel 1991 Mondadori ne pubblicò un libro dall’ovvio intento encomiastico: “A modo mio” (citazione da “Piazza Grande” di Lucio Dalla, cantautore vicino a Craxi), raccolta di dialoghi con Cesare Peruzzi, direttore della redazione fiorentina del “Sole 24 Ore”. Era il Gardini in fase calante – seguirà l’impresa velistica del “Moro di Venezia”: sfoggio muscolare e canto del cigno – che, ridimensionata la scalata alla Montedison, si difendeva dai detrattori con lettere fluviali allo stesso giornale di Confindustria.

Trent’anni dopo il suicidio di Gardini, Baldini+Castoldi ripubblica, su iniziativa di Elisabetta Sgarbi, “A modo mio” (aggiungendo una bruttissima prefazione dell’ultracraxiano Giovanni Minoli), in due edizioni identiche ma con copertine diverse: una, col dorso rosso, vede Gardini fotografato da Ferdinando Scianna in completo scuro e nella sua biblioteca; l’altra, dai toni celesti, lo ritrae in versione marinara.
Il libro del ’91 constava delle sole interviste (dall’ordine qui modificato): sul passato di Raul e sul suo incontro con Serafino e la famiglia Ferruzzi, sull’approdo alla Montedison assieme a Mario Schimbeni, sull’Unione Europea (vista da Gardini, critico in particolare nei confronti del Trattato di Roma, come la vedeva Craxi: una grande occasione mancata per l’Italia, che vi si era condannata a un ruolo di subalternità; sulla lotta con i finanzieri milanesi radunati attorno alla Mediobanca di Cuccia); la nuova edizione aggiunge a esse la cronologia della dinastia Ferruzzi-Gardini (fatta cominciare con la nascita dei padri di Idina e Raul), tre discorsi di Gardini (“Verso una nuova agricoltura”, pronunciato all’Università di Bologna nell’aprile 1987, dopo aver ricevuto la laurea honoris causa in agraria; “Una strategia industriale per la qualità della vita”, intervento all’assemblea della Ferrucci Finanziaria, a Ravenna nel settembre ’88; “Il coraggio di credere in una nuova epoca di sviluppo”, prolusione a una cerimonia dell’Accademia dei Lincei in Roma, febbraio ‘90) e un pregevole corredo iconografico: foto di Raul Gardini all’apice della sua carriera – con la moglie, i figli, le frequentazioni celebri (curiosamente, non si vede mai Craxi), le barche, Ravenna e l’altrettanto adorata Venezia – e, soprattutto, scritti di suo pugno – su carta intestata, su agende, su fogli liberi.
Fra tali scritti autografi, i più notevoli sono forse le bozze di lettere per Giulio Andreotti, e un “Amaro appunto sulla infelice evoluzione di Enimont e delusione sul sistema politico italiano” (senza data né luogo) nel quale Gardini sfoga il suo disappunto per “il desiderio della parte pubblica di interferire nella gestione e di non procedere all’applicazione del DDL elaborato in sostituzione del DPR” (il riferimento è a quando De Mita e Achille Occhetto tradirono la promessa fatta nel 1988 a Gardini di sgravi fiscali che sarebbero seguiti al conferimento, alla “joint venture” Enimont, di Enichem – il settore chimico dell’ancora pubblica Eni).
Molto bella l’epigrafe, scritta da Gardini stesso, con dedica: “Al genio della mia città, che alita di Occidente nelle campagne e nelle cupole dei pini, mentre risuona d’Oriente sulla battigia per poi svanire negli occhi dei mosaici e riapparire in quelli tenaci della gente”.
La ripubblicazione, ben ampliata, di “A modo mio” segue una lista di libri sul “mito” Gardini: visto, prima ancora che come capitano d’industria, come figura tragica e affascinante (per esempio, in “Il tuffatore” – edito, nel febbraio 2022, proprio dalla sgarbiana Nave di Teseo – Elena Stancanelli nota il curioso intreccio fra le vite di Raul Gardini e di Fabrizio De André: entrambi avevano un occhio socchiuso dalla ptosi palpebrale – Gardini il destro, De André il sinistro – e il padre del cantautore genovese, Giuseppe, si licenziò da Eridania non condividendo i piani di “Raul il contadino”.
L’istanza celebrativa di Gardini (ormai considerato a Ravenna il patrono della città), pur riconoscendo l’eccezionalità del personaggio, non è del tutto condivisibile. Nell’Italia che però ancora mitizza un Giovanni Agnelli qualsiasi (e che si fa sbeffeggiare dai di lui nipoti), si finisce col considerare il ravennate un titano. Lo si vede anche nel calcio europeo, un tempo dominato da squadre italiane guidate da presidenti italiani e ormai monopolizzato da americani e sceicchi: lo sprofondamento della “cosa pubblica” in Italia è stato accompagnato da quello del settore privato, dalla classe imprenditoriale. In tempi di imprenditori digitali ed effimere start-up di bocconiani irregimentati e appiattiti, si ha nostalgia se non dello stesso Raul Gardini, comunque di quella generazione di imprenditori capaci di lunga visione, intraprendenza coraggiosa e perché no, anche di eleganza, stile e cultura. Dalla maledizione di Ca’ Dario ai balletti sui social network c’è un abisso stilistico che chissà perché si accompagna a quello nella sostanza.
Raul Gardini (a cura di Cesare Peruzzi), A modo mio. Trent’anni dopo
Baldini+Castoldi e la Nave di Teseo, Milano, giugno 2023
288 pagine, 20 euro