Nell’anno 1972 i ragazzi di destra del liceo Manzoni erano soliti ritrovarsi all’ora di ricreazione davanti all’ufficio di segreteria del preside. Questa abitudine era stata istituita da un paio d’anni e fra i promotori si era segnalata Emanuela Setti Carraro, una ragazza alta e bionda che si distingueva fra tutti perché indossava sempre una mantella da crocerossina. Che fosse attratta dalle divise lo confermò poi negli anni a venire quando si invaghì del generale Alberto Dalla Chiesa che poi sposò e con cui condivise una fine orribile in un agguato della mafia a Palermo, precorrendo quanto poi accadde ai giudici Falcone e Borsellino.
Qualche giorno fa con Gianfranco, il protagonista di questo racconto, riflettevamo sul fatto che nessuna biografia di Emanuela ricorda la sua presenza al liceo Manzoni, quasi che non ci fosse mai stata; segno che i fatti narrati da una sola parte sono sempre fuorvianti e lacunosi. Gianfranco subentrò ad Emanuela come leader del nostro gruppo che fu chiamato Gioventù Nazionale, anche se in realtà rappresentava la Giovane Italia, organizzazione giovanile del Msi. Una decina di anni più tardi Gianfranco sarebbe stato tra i primi giornalisti occidentali ad entrare clandestinamente in Afghanistan dopo la spedizione di Almerigo Grilz, Fausto Biloslavo e Gian Micalessin.
Ci fu un giorno di metà ottobre di quell’anno che il nostro Gianfranco si presentò al solito punto d’incontro fra noi, durante la ricreazione, indossando una cintura che aveva una fibbia con su impressa l’immagine di un’ascia bipenne. In quei tempi i giovani indossavano spesso indumenti e accessori di tipo militare, che si acquistavano alla fiera di Sinigaglia a Milano o addirittura al mercatino americano di Livorno. Ai compagni toccava indossare l’eskimo , ai camerati erano attribuiti gli anfibi e i mitici occhiali Rayban. Più o meno tutti usavano per portare i libri borse o zainetti in uso all’esercito, italiano o Usa che fosse.
Era poi una moda aggiungere a quelle sacche alcune scritte a pennarello inneggianti alla propria appartenenza politica o sportiva. Su uno sfondo grigioverde spiccavano le A inneggianti all’anarchia, le falci e martello, le scritte ”W Marx, W Lenin, W Mao Tse Tung”. Ma qualcuno esibiva il fascio littorio o il più prevedibile” W il Duce”, e questo non era democraticamente ammissibile.
Così i compagni del Movimento Studentesco avevano istituito i primi di ottobre, all’inizio delle lezioni, dei picchetti, vere e proprie forche caudine, all’ingresso del liceo, per controllare che ogni borsa o zainetto non recasse turbative all’ordine democratico. Ci furono ragazzi costretti a cancellare a colpi di pennarello nero, dalla propria borsa, scritte inneggianti al Msi, il “boia chi molla “di recente introduzione o altre simbologie che offendessero la sensibilità democratica. Io me la cavai perché il militante in eskimo incaricato del controllo alla mia entrata, non era molto convinto dell’iniziativa e sorvolò su un minuscolo W MSI che avevo appena corretto in WM8I sulla tracolla della mia sacca.
L’ascia bipenne sulla fibbia della cintura di Gianfranco quel giorno non era passata inosservata; si trattava di una bieca provocazione fascista ed andava subito tolta di mezzo. Per i compagni l’ascia bipenne era solo il simbolo di Ordine Nuovo, organizzazione fascista extraparlamentare, nessun richiamo ai tempi antichi quando significava il fulmine divino, troppo complicato per loro pensare più in alto.
Al suono della campanella il nostro gruppo si sciolse ed ognuno tornò alle proprie aule, così io e Gianfranco imboccammo le rampe della larga scala che ci portava a piano terra. Su quei gradini pochi giorni prima era stata fatta ruzzolare giù Giovanna, una dei nostri; sì perché al liceo Manzoni era già stata raggiunta la parità dei generi ed anche le ragazze venivano malmenate dai compagni. Qualche anno dopo sarebbe toccato a Maria Teresa, oggi autorevole consigliere dell’Ordine dei Medici di Milano; venne gettata per terra e picchiata insieme al fratello all’ingresso del liceo.

A buttar giù per le scale Giovanna era stato Paolone, un compagno dotato di scarso acume e di grande irruenza, supportato da un fisico molto robusto; proprio per questo gli altri militanti lo mandavano avanti a sbrigare le questioni che richiedevano una certa dose di violenza. Era proprio Paolone uno degli incaricati nelle assemblee ad individuare ed a prendere quei quattro o cinque ragazzi di destra presenti ed a trascinarli con minacce fuori dall’aula magna. I “fascisti” venivano cacciati nel silenzio generale e la loro unica forma di protesta era tenere le braccia alzate in segno di resa mentre uscivano.
Paolone avrebbe, solo molti anni dopo, sublimato questo passato molto burrascoso, diventando il biografo ufficiale di un giovane cristallino, un eroe dei nostri tempi, Marco Simoncelli, un grande campione vittima di un fatale incidente in un moto GP. Ma quel giorno Paolone era lì, al termine della scala, ad aspettarci, con una quarantina di compagni agguerriti e decisi a far togliere quella dannata cintura a Gianfranco. Giunti al piano terra, si formarono due capannelli che a cerchi concentrici pressavano Gianfranco da una parte ed il sottoscritto poco più a lato.
“Togliti quella cintura ” urlarono a Gianfranco, che dall’alto dei suoi centonovanta centimetri sorridendo diceva di no.
“Togliti quella cintura” ripeterono a voce più alta ed apparentemente più decisi, tutti e quaranta i compagni.
Gianfranco ripeteva il suo “no” ed era deciso a vender cara la pelle.
“Togliti quella cintura” ma questa volta l’ordine sembrava più un’implorazione.
Al quarto o quinto “no” la situazione per i compagni stava diventando imbarazzante. Era ovvio che a quel punto avrebbero dovuto passare dalle minacce ai fatti, ma si rendevano conto che ciò avrebbe significato per almeno un paio di loro qualche bel cazzotto in pieno viso e nessuno dei comunistelli voleva essere fra questi.
Come nella favola della volpe e l’uva, come un sol uomo decisero che poi quella fibbia della cintura non meritava così tanta attenzione e alcuni di loro rivolsero l’attenzione a me, che dei due ero il mingherlino, ingrossando il gruppo che mi teneva stretto e prigioniero. A capo del gruppo c’era Giovanni, per tanti anni mio compagno di classe, che prese a minacciarmi ed a gettarmi provocatoriamente il fumo della sua sigaretta in faccia. Giovanni soffriva da sempre di un complesso d’inferiorità nei confronti del fratello maggiore, ragazzo ineccepibile, bravo studioso, moderato, molto intelligente. Questo fratello non a caso e meritatamente sarebbe divenuto, da giornalista sportivo, il direttore della mitica Rosa.
Fu così che di queste frustrazioni mi trovai io a farne le spese quel giorno. Continuando a fumarmi addosso, Giovanni mi minacciò dicendomi di stare attento, perché ero il primo della lista. Pur con molta paura addosso, tra una nuvola di sigaretta e l’altra, cercai di assumere un aspetto distaccato e ironicamente lo ringraziai della premura. I due cerchi si sciolsero e finalmente io e Gianfranco ci salutammo e potemmo raggiungere le rispettive classi.
In effetti i compagni, moderni aruspici, videro nel futuro. Il mese dopo fui effettivamente il primo ad avere una linea rossa tra i capelli, poi toccò a Gianfranco, poi a Vittorio, oggi valente chirurgo oncologo dell’Istituto dei Tumori; poi non ci fu più nessuno perché avvenne un esodo semiclandestino di giovani di destra nelle scuole private.
Sono stato al Manzoni dal 1970 al 1975, sezione H, e ricordo bene il clima che c’era allora. Riconosco quasi tutti i nomi citati dall’autore in questo e negli altri pezzi dedicati agli anni di piombo al Manzoni: Gianfranco, Paolone, Stefano ecc. Io non ero impegnato politicamente, ma non ho mai avuto nostalgia di quel periodo. Complimenti per la ricostruzione.