“Sera di giugno”, lo spettacolo teatrale messo in scena da un gruppo di giovani militanti romani, racconta la storia degli ultimi giorni di vita di Francesco Cecchin, un ragazzo di diciassette anni, aderente al Fronte della Gioventù, ucciso nel 1979 in seguito ad un agguato di un gruppo di compagni, rimasti sconosciuti ed impuniti.
Una storia nostra, tutta nostra, che nessuno ci porterà via, che ricostruisce il clima degli anni di piombo; quel clima che la storiografia ufficiale cerca di nascondere ma che continua a riaffiorare nelle testimonianze di chi c’era ed ha vissuto quel periodo dalla parte “sbagliata”.
Tutto lo spettacolo gode della colonna sonora delle canzoni esclusive della musica alternativa, un patrimonio culturale che solo il nostro mondo riesce ad offrire. Eseguite dal vivo, le canzoni di quegli anni, con il contributo di cantanti solisti veramente d’eccezione, si alternano alla parte recitata dove spicca il ruolo dell’attore protagonista che incarna il giovane Francesco Cecchin. Il protagonista narrante non è un ragazzo, come ci si potrebbe aspettare, ma un uomo cinquantenne, l’età che avrebbe Francesco se fosse ancora vivo; l’espediente spiega come tutta una vita sia stata spezzata in quella tragica sera di giugno.
Lo spettacolo ci cala nella realtà di quegli anni di passione politica, nella vita di sezione, nella “romanità” di quegli ambienti, comunque simili a tutti gli altri disseminati nella nostra Italia di allora. Ci racconta la vita quotidiana del militante di destra: le bugie alla mamma per poter uscire di casa e non metterla in apprensione, il lavoro in sezione con l’odore della colla per i manifesti, l’amicizia tra giovani che si trasforma in cameratismo per il comune pericolo incombente, il benevolo scontro con i militanti più anziani, nostalgici e fossilizzati in schemi mentali superati ma dotati di gran cuore, le minacce quotidiane dei compagni con i loro continui soprusi.

Fino a quando arriva il giorno dell’aggressione, della caduta da un muro alto cinque metri, del ritrovamento del corpo di Francesco, in una strana posizione, ancora vivo. Poi la corsa in ospedale, il ricovero in coma, l’attesa animata da una flebile speranza ed infine la notizia della sua morte. Tutte cose già purtroppo viste in tante altre vicende da Carlo Falvella a Paolo Di Nella, ma sempre ricordate con dolore.
Se un’obiezione si puo’ fare alla trama teatrale riguarda la mancata descrizione degli ultimi momenti di vita di Francesco, da quando ricevette le minacce dei compagni alla vile aggressione.
Perché chiunque ha fatto politica a destra in quegli anni ha conosciuto la paura, la vera paura, quella che ti gela il sangue nelle vene, che ti svuota la testa, ma che non ti ferma e ti spinge ugualmente nella sfida ad andare avanti. Perché loro erano tanti e consci di restare impuniti. E Francesco in quei frangenti sono convinto che ebbe paura, per quanto giovane non era un incosciente, sapeva a cosa poteva andare incontro sfidando quella gente; è stato un vero eroe dei suoi tempi.
Se noi tutti poi ci siamo innamorati di Tolkien e della Compagnia dell’Anello è perché ci riconoscevamo in quel piccolo gruppo di personaggi dotati di coraggio, inferiori di numero ma superiori nelle qualità morali.
I compagni erano orde di orchetti, sospinti dalla forza del numero ma senza cuore; se la sinistra non ha mai amato le vicende tolkeniane, forse è dovuto proprio ad un inconscio riconoscimento di non essere stati dalla parte giusta.
R.i.p.
Caro Marco Valle non me ne voglia l’autore dell’articolo ma trovo profondamente sbagliato e fuorviante definire ‘compagni’ qui e altrove avversari politici quasi sempre autori di azioni vigliacche e spesso degli assassini. Nessuno di quell’area ci ha mai definito ‘camerati’ nella ricostruzione dei fatti… Tralasciando i nomi gergali o insultanti non credo che si farebbe torto alla realtà definire questi personaggi semplicemente ‘comunisti’… Compagni si chiamano tra loro e mi pare eccessivo usargli pure questa cortesia…