Il fascino di certi luoghi al mondo è legato alla propria unicità ; dovunque tu vada non troverai mai altro di simile. Così è Marrakech nel cuore del Marocco : tutti imputano la sua fama alla famosa piazza del mercato, sempre ricca di vita, di suoni, di colori e di odori, dove puoi vedere incantatori di serpenti, fattucchiere, suonatori e danzatori, erboristi che ti offrono camaleonti mummificati come afrodisiaci, mendicanti ciechi in cordata come nei quadri di Brugel, cuochi che ti invitano a mangiare teste di capra o piatti di lumache , fruttivendoli che ti offrono datteri e frutta secca e poi il suk con i suoi fitti dedali di botteghe.
Ma la vera sorpresa è vedere i palmeti incorniciati sullo sfondo dai monti dell’Atlante, innevati per gran parte dell’anno.
In un’ora e mezza di viaggio puoi essere sui campi da sci oppure scegliere di seguire le spedizioni in auto verso il deserto.
E’ stato proprio tornando da un villaggio berbero alle pendici delle montagne che mi sono imbattuto, durante la pausa di un congresso medico internazionale, in una cooperativa di sole donne che macinavano semi particolari ed offrivano ai clienti oli, unguenti, prodotti cosmetici e miele di loro produzione. Era chiaro fin dalla scritta fuori da quella piccola azienda che si trattava di un’iniziativa governativa volta a promuovere il lavoro della donna nella società marocchina : uno sforzo isolato, lodevole ma molto lontano dalla soluzione del problema.
Ancora oggi il ruolo della donna nella società araba è subordinato; una manager italiana operatrice turistica mi raccontava della difficoltà di farsi accettare dai suoi colleghi marocchini. Ma mi spiegava che se oggi è difficile , solo venti anni prima era impossibile. “Dovunque in Marocco incontri molte donne velate ma anche qualche ragazza in minigonna”.
“I contrasti tra tradizione e modernità sono sempre più evidenti” continuava la nostra imprenditrice sorseggiando l’immancabile tè alla menta al tavolo di un ristorante tipico, all’interno di un palazzo in stile moresco.
E mentre proseguiva la conversazione con altri colleghi, mi vennero in mente i miei inizi professionali negli anni 80, quando appena laureato mi prestai come sostituto di un medico ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi,.
Dovevo assistere i dipendenti di una multinazionale ed avevo molto tempo libero.
Così un giorno conobbi una ragazza inglese, caposala del reparto di neonatologia dell’ospedale per i ricchi abitanti autoctoni.
Infatti negli Emirati Arabi esiste un servizio sanitario per chi ha la cittadinanza locale, con i medici migliori e le apparecchiature più sofisticate, ed una mutua alla buona per i moltissimi lavoratori pachistani, indiani o filippini impiegati sul posto.
Questa infermiera mi invitò a visitare il reparto ed un pomeriggio tardi, quando il sole di luglio era un po’ più clemente, mi recai a trovarla.
Nel reparto super specializzato c’erano molte culle, ma mi portò subito a vedere un neonato prematuro che dormiva in un’incubatrice.
“Vedi, questo bambino deve ringraziare me se non è rimasto orfano!” disse indicando il piccolo. Sua madre aveva avuto le doglie in anticipo, era fortemente sofferente, rischiava di morire, ma il marito si opponeva ostinatamente al taglio cesareo. Non sentiva ragioni, finché mi venne l’idea di ingannarlo, facendogli credere che, senza questo intervento, non ci sarebbe stata speranza nemmeno per la vita del figlio. Allora ha acconsentito, tutto si è risolto, la mamma ed il bambino adesso stanno bene ; quanto al padre forse ha capito dell’inganno, ma se l’è bevuta volentieri.” Così mi ricordai di riflesso di quella volta che un testimone di Geova fu salvato in extremis da una trasfusione; il rianimatore l’aveva somministrata , senza sapere che la religione del paziente vietava questa pratica.
Vidi quel paziente aprire un occhio, guardare la sacca di sangue e chiudere nuovamente la palpebra, rilassato, facendo finta di niente.
Fui riportato al presente dalla musica marocchina che continuava incessante, rendendo difficoltosa la conversazione al tavolo; riuscii a percepire l’intervento di un collega commensale che riportava quanto dettogli da una guida turistica a Casablanca.
Questa lamentava che giovani coppie si appartassero la notte fra le imponenti colonne della nuova e moderna moschea , infrangendo ogni regola di comportamento.
Mi venne automatico pensare a quella volta che ero al lavoro in un ambulatorio di Skikda, in Algeria, piccola città portuale sul Mediterraneo.
L’anziano infermiere algerino, di scuola francese, mi anticipò la visita di un giovane del luogo, che aveva un problema serio da pormi.
Lo feci entrare e grazie alla traduzione dell’infermiere raccontò che la sera precedente era stata la sua prima notte di nozze.
Finalmente lui e sua moglie si erano trovati insieme e lei si era svelata, in tutti i sensi; si guardavano e non sapevano cosa fare ; lei tremava tutta in un angolo, lui era paralizzato dalle circostanze, di fronte a quella che scopriva essere un’estranea. Non conclusero niente ma non era solo questo il problema , aveva speso una cifra considerevole per quella moglie e c’era il rischio che senza prove dell’avvenuta consumazione , il padre richiedesse indietro la figlia.
Il neo marito era venuto da me per chiedere qualche medicina che lo aiutasse a superare il secondo round, decisivo per la prossima notte.
Mentre ascoltavo cercavo mentalmente una soluzione, l’unica che mi veniva in mente era di consigliargli un goccio di whisky, poteva stordirlo e disinibirlo. Ma poi pensai che suggerire un alcolico ad un musulmano non fosse molto conveniente , così gli allungai un farmaco a base di testosterone, come effetto placebo.
Il giovane uscì dalla stanza ma rimase a confabulare in anticamera con l’infermiere.
Quando rimanemmo soli, chiesi all’anziano paramedico cosa si fossero detti. Mi rispose che gli aveva consigliato di farsi una bevuta di whisky e di ritentare.
La storia però non fu a lieto fine, ed il matrimonio terminò ancora prima di cominciare.
L’ingresso nella sala, accompagnato da ovazioni, di quattro danzatrici del ventre, mi riportò alla realtà del momento.
Si capiva subito che era una trovata per turisti, perché la performance era modesta, le protagoniste non avevano né fianchi sinuosi né quelle rotondità ben disegnate che richiedono quel tipo di danza; erano solo delle belle, giovani ballerine.
Mentre alcuni colleghi si abbandonavano a licenze degne di una scolaresca di liceali in vacanza, per carità di patria tornai a rifugiarmi nei miei ricordi.
E così mi venne in mente di quella volta di trent’anni orsono, sempre ad Abu Dhabi, quando fui invitato a casa sua da una ragazza palestinese, che viveva sola, per provare un piatto tipico libanese, a base di melanzane.
Fu una serata innocente, in cui si parlò di tante cose, mi ricordo che adorava Gheddafi e dovetti a stento trattenermi da esprimere le mie opinioni molto differenti. Ma ciò che soprattutto non dimenticherò era il suo sguardo fiero, i suoi vivaci occhi neri e quell’intensità espressiva che riscattava un corpo un po’ sovrappeso.
Aveva potuto invitarmi e trattarmi alla pari, perché la sua condizione di profuga l’aveva paradossalmente resa libera, in quanto non doveva sottostare ad alcuna regola impostale da una qualche autorità. Ed i suoi intensi occhi neri simboleggiavano ciò che tutte le donne arabe hanno di più prezioso : lo sguardo.
Gli occhi sono il loro mezzo di comunicazione con il mondo, con gli occhi vedono, giudicano, ammirano, disprezzano, incantano e nessuno potrà mai impedirglielo.
La musica intanto accompagnava ancora le danzatrici nel salone moresco, appartata una matura insegnante di danza giudicava severa le sue allieve, era la responsabile di quell’attrazione e l’esibizione doveva essere all’altezza della sua scuola.
Poiché apparivo in disparte ed immerso nei miei pensieri, un collega di fianco pensò di coinvolgermi nella conversazione e mi disse:”Hai sentito che Julia Roberts ha acquistato casa a Marrakesh ?”
“Ci credo ,-risposi-, ha un bello sguardo !”
“Ma cosa c’entra?”
“C’entra, c’entra.”