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Talebani, Isis e Trump. Tutti in guerra contro la Storia e la bellezza

di Gennaro Malgieri
11 Gennaio 2020
in Home, Mondi
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Alla fine di febbraio del 2001 la barbarie fa irruzione in un remoto angolo del mondo. Tra le rocce della Valle di Bamyian, in Afghanistan, a circa 230 chilometri da Kabul, le due gigantesche e secolari statue di Buddha vengono distrutte a colpi di mortaio dai talebani che se ne gloriano come una vittoria militare. È la sconfitta invece dell’intelligenza, l’umiliazione della dignità umana. Quattrocento religiosi afghani avevano dichiarato che le statue erano blasfeme per i musulmani che si oppongono fieramente alla rappresentazione delle icone religiose. A 2500 metri di altezza, i due imponenti monumenti si arresero al tempo che avevano a lungo sfidato e crollarono sotto la brutale violenza dell’ignoranza e della follia. Le statue erano imponenti ed antiche:una era alta 38 metri e risaliva a 1800 anni fa,  l’altra 53 metri ed aveva 1500 anni. Probabilmente erano state costruite  state costruite tra il  III ed il V secolo dai Kushan e dagli Eftaliti all’apogeo  della loro espansione. Dalle  due etnie indoeuropee sarebbe venuta fuori la comunità indoeuropea  Pashtun, il popolo dal quale scaturì  poi la setta dei Talebani. Si trattò, dunque, di una sorta di parricidio culturale.

L’orrendo crimine  in scala diversa si ripeté  negli anni successivi,  sempre nell’Asia centrale e nel Vicino Oriente, nei luoghi dove i resti di una sublime civiltà, ormai sepolta,  come ci ha raccontato C.W. Ceram — giornalista , scrittore ed archeologo tedesco, il cui vero nome era Kurt Wilhelm Marek (1915-1972) —  affondarono nel sangue di ideologie demenziali volte al affermare una volontà di potenza distruttrice sostenuta dall’utilità di rifondare lo Stato islamico.

È così che si è dissolta la Mesopotamia, luogo d’origine per eccellenza;  è così che ai piedi della catena montuosa dell’Hindukush, alla cui sommità troneggia l’Himalaya, che lasciò senza parole gli scienziati ed esploratori di Alessandro Magno anche lui estasiato dalla potenza di una natura neppure immaginata oltre la quale intendeva estendere il suo dominio, si è consumata una tragedia alla quale nessuno potrà porre rimedio.

Pochi anni dopo la tragedia di Bamyian, altri barbari, dunque, spingendosi verso le rive del Mediterraneo e devastando le terre dove l’alba della civiltà si era manifestata in questa parte dell’emisfero, lasciarono il loro infame marchio sugli uomini, sulle donne e sulla storia. Gli islamisti dell’Isis e di Jabhat Fateh al-Sham, saccheggiarono e violentarono e incrudelirono spalmando la loro demenza nella piana di Ninive, culla della Cristianità d’Oriente, e sul museo di Mosul  e sulle moschee funerarie irachene; profanarono i santuari di Giona accanendosi sulle antiche capitali assire  di Nimrud, Assur, Khorsabad. E poi ad Aleppo, a Apamea, a Palmira, a Ebla versarono la loro follia jihadista distruggendo i simboli e i siti maggiori delle tre religioni monoteiste.

È presto per fare i conti. La situazione ancora non lo permette. Ma almeno una cosa la si può dire senza tema di smentita: oltre agli esseri umani, le guerre annichiliscono le identità, senza ricavarne nulla se non il dolore di chi resta e la dannazione perpetua contro  chi provoca scempi insanabili.

Qualcuno dovrebbe raccontare un po’ di queste storie al capo riconosciuto – almeno militarmente – dell’Occidente, il presidente americano Donald Trump, quando minaccia di distruggere i siti culturali sacri per gli iraniani, non meno che per l’umanità intera se ancora ha un senso dirsi appartenenti ad essa. È la più stupida, la più volgare, la più impolitica delle minacce che Trump abbia offerto al mondo in tre anni di mandato. Confonde guerra e barbarie, posto che non siano sinonimi l’una dell’altra. Neppure i signori della guerra giapponese nelle epoche più crudeli o gli invasori dell’Occidente, come Gengis Khan colpirono i simboli identitari se non costretti a difendere se stessi ed i propri eserciti. Ma quell’America che s’inventò i Monument Man, protettori della cultura mentre infuriava la guerra mondiale e subito dopo la sua fine, oggi può stare a sentire un presidente che giustifica tutto per giustificare il vuoto politico da cui deve difendersi per vincere una miserevole campagna elettorale?

A Isfahan, una delle città “magiche” dell’antica Persia, si può stare come un antico sufi con gli occhi levati al cielo sotto la cupola della Moschea del Venerdì (1038-1118), costruzione imponente, fantastica, regale e mistica della dominazione Selgiuchide, non lontana dal ponte Si-os- Pol, che vuol dire ponte a trentatrè archi, opera sulla quali a lungo si è esercitata la perizia e l’intelligenza archeologica ed architettonica italiana, con l’Isiao, erede dell’Ismeo fondato da Giovanni Gentile e da Giuseppe Tucci. Quest’ultimo si occupò anche della reggia di Dario a Persepoli che diventerebbe polvere sotto l’attacco di un paio di droni che distruggerebbero anche i circostanti insediamenti Zoroastiani.

Ero da quelle parti, anni fa e mi allontanai dal gruppo che si aggirava tra le rovine. Un alto signore maro e olivastro, vedendomi un po’ spaesato alla ricerca di una fontana, mi diede indicazioni precise in perfetto italiano. Sbalordii. Chiesi se era stato nel mio Paese. Mi disse che non si era mai mosso dal villaggio poco distante. Aveva imparato tutto porgendo pennelli e cazzuole agli studiosi italiani di Tucci che portavano alla luce, insieme con altri archeologi e storici dell’arte, l’imponente edificio testimonianza di cultura e regalità e religiosità.

A sera sulle rive del fiume Zayandeh, che attraversa Isfahan, sormontato dal stupendo, lunghissimo ponte a trentatrè archi, si possono mangiare le mele di Bam, le più profumate del mondo, mentre ci si  estasia  dagli accordi che escono da un santur accompagnato dal ritmo di un tombak o di un daf e magari di un violino, mentre giovani donne si acconciano il velo nella maniera più civettuola, spostandolo quasi sulla nuca, ammiccando con sorrisi eleganti al viaggiatore che morde la mela e gusta una specie di sidro fresco come le acque del fiume calmo che accarezza le arcate del ponte.

Tra Teheran e Shiraz c’è un mondo dove l’arte sembra essersi incarnata nel paesaggio leggero che perfino la presenza ossessiva dei pasdaran non riesce a guastare. Ed il Palazzo del Golestan nella capitale o  il santuario di Hazrat-é Masumeh nella città santa di Qom come potrebbero essere distrutte da bombe lanciate da migliaia di chilometri di distanza senza recare sacrilegio non soltanto ai musulmani?

No, i cow boys dovrebbero pure aver letto qualcosa, se non altro nelle scuole  o nei college che frequentano. Forse Trump si è fermato ai fumetti, ma non è una buona giustificazione al suo furore iconoclasta. Da presidente dovrebbe conoscere le convenzioni internazionali che vietano l’aggressione ai siti culturali, da tycoon avrebbe dovuto maturare una minima considerazione per la bellezza.

Non sembra che tutto ciò rientri nel patrimonio umano di Trump. E tanto basta a fargli dire le cose sconsiderate che in Afghanistan o a Mosul i nemici dell’umanità dicevano combattendo la loro sporca guerra contro la storia, la cultura, l’identità dei popoli.

Il Dubbio, 10 gennaio 2020

Tags: Afghanistanartearte preislamicaDonald TrumpIranISIS
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