Mio padre visse le vicende dell’8 settembre in una posizione certamente straordinaria, molto vicino ad alcuni degli attori principali di quel travagliato momento storico, rendendosi testimone anche di alcuni fatti inediti, raccontandoli in un libello che ebbe pochi lettori privilegiati .Poiché ritengo che le vicende narrate possano meritare una platea più ampia e l’interesse degli storici più curiosi, mi permetto di pubblicare alcuni stralci della sua personale testimonianza.
“Cosa ci facesse , nell’estate del ’43 , un battaglione di allievi ufficiali in un campo di granoturco della pianura brindisina, è difficile stabilirlo.
Non certo per ragioni didattiche , data l’assenza di qualsiasi strumentazione adatta a erudire i futuri ufficiali e neppure per motivi bellici.
Il battaglione non aveva possibilità di difesa né di offesa per mancanza assoluta di armi adeguate, di munizionamento, di collegamenti con altre unità operative o di difese naturali cui potersi eventualmente arroccare.
I fucili 91 in dotazione, nel contesto della guerra allora in corso, erano un’arma puramente decorativa, tenuta in vita forse per motivi più sentimentali che pratici.
Le poche mitragliatrici disponibili, una per plotone, erano ancora le vecchie Fiat Revelli del 1914, con raffreddamento ad acqua, residuato della guerra 15-18, su cui non si poteva assolutamente contare perché s’inceppavano regolarmente dopo i primi colpi.
Qualcuno ha avanzato l’ipotesi, forse la più probabile, che il 52° battaglione allievi ufficiali fosse stato deliberatamente abbandonato in una zona lontana dai bombardamenti e dalle operazioni belliche, per meglio imboscarlo, per tenere cioè lontano dai pericoli reali un migliaio di giovani universitari molti dei quali ostentavano padri importanti.
Ai primi di settembre la vita all’accampamento del 52° scorreva monotona ed uniforme.
L’annuncio dell’armistizio risolse la situazione.
La notizia si era diffusa verso sera, poco prima delle otto, e aveva scatenato nel campo una grande euforia. I soldati si erano sparpagliati nella campagna cantando fino a notte alta sulle aie delle masserie e nelle case dei contadini che offrivano da bere per festeggiare la fine della guerra.
Un’allegria ed un’esultanza smodata si erano impadronite di tutti: era la fine di un incubo, l’epilogo di una tragedia che durava da anni e di cui tutti temevano il prolungarsi drammatico.
La notizia dell’armistizio sembrava aver cancellato timori, preoccupazioni e problemi.
Eppure in mezzo a questo bailamme di canti , di grida, di risa, di soldati che rientravano al campo storditi dal vino e dalle feste, sentii un pianto sommesso che proveniva dalla tenda di un ufficiale. Era un pianto triste, disperato, interrotto da singhiozzi e sospiri. Era l’altra faccia della tragedia. Era la disperazione di chi aveva creduto nella guerra, di chi aveva ingenuamente accettato rischi, sacrifici e privazioni perché aveva creduto nell’ideologia e ritenuto che questa si identificasse con la patria.
Ed ora, con l’armistizio, vedeva crollare di colpo tutto ciò in cui aveva creduto, perché l’armistizio sanciva senza residue speranze, la fine di una guerra, di una guerra perduta.
Era la fine definitiva di tante illusioni giovanili, di un’era che aveva promesso un avvenire di gloria e si concludeva con una tragedia immane, in mezzo ad un mare di delusioni e di macerie.
Il pianto di questo ufficiale faceva uno strano contrasto con l’allegria dei soldati. I loro canti si affievolirono con il buio più intenso. A poco a poco i soldati rientrarono nell’accampamento, alla spicciolata come dei turisti stanchi.”
Mio padre poi mi raccontò che alcuni di questi ufficiali che videro come un’onta l’armistizio, accettarono comunque di restare nell’esercito regio e parteciparono l’anno successivo alla battaglia di Montelungo contro i tedeschi, cadendo in combattimento. Il loro nome compare nella lapide di coloro che si sacrificarono nella “lotta al nazifascismo”!
“L’indomani , verso sera, arrivò il sergente Palillo che faceva spesso la spola tra Brindisi e Mesagne per il disbrigo degli affari inerenti il battaglione.
Aveva notizie fresche che pare avesse attinto direttamente da casa dell’ammiraglio Rubertelli, comandante marittimo di Brindisi, con la cui donna di servizio aveva una qualche confidenza.
Dunque nel primo pomeriggio era arrivata a Brindisi la corvetta “Baionetta” da cui erano sbarcati il re, la regina, il principe Umberto ed il maresciallo Badoglio.
L’ammiraglio Rubertelli aveva ospitato in casa sua, un appartamento adiacente al castello Svevo, il re e la regina. Raccontava la domestica che il re e la regina erano arrivati senza preavviso nelle prime ore del pomeriggio mentre la signora Rubertelli, in vestaglia e bigodini riposava in camera da letto per la siesta pomeridiana.
La signora, confusa ed emozionata, aveva fatto passare il re e la regina in salotto e si era sentita in dovere di chiedere lor se necessitavano di qualcosa. “L’uso del bagno” fu la risposta del re.
Pare che a questa richiesta la confusione della signora Rubertelli, conscia che il bagno era in condizioni di estremo disordine, aumentasse ulteriormente. Un cenno disperato alla domestica perché riavviasse in qualche modo la stanza ed “io feci quel poco che potevo fare” ( così si era espressa la domestica).
Queste notizie avevano più che altro il sapore del pettegolezzo anche se lasciavano intendere la situazione di sbandamento in cui si trovava il Paese.
Comunque non risolvevano il problema di fondo che era quello di sapere che cosa si doveva fare e quale fosse il programma che ci attendeva. Che cosa si doveva fare lo si seppe il giorno dopo, quando il battaglione Allievi Ufficiali venne mobilitato in tenuta di guerra come nelle grandi occasioni.
A venti chilometri da noi la famiglia reale e il governo si erano definitivamente acquartierati. Dopo due giorni di attesa la vita del campo era tornata quella di prima.
Non era confortevole stringersi in otto in una tenda che, per le sue ridotte dimensioni, poteva al massimo contenere due o tre persone.
Molti preferivano passare la notte allo scoperto. Io ero tra quelli : meglio affrontare l’umidità della notte che il caldo, la promiscuità e il sudore di otto persone strette fra loro. A settembre inoltrato il caldo si faceva ancora sentire durante il giorno, ma le notti si erano fatte più fresche e si rendeva necessario avvolgersi nelle coperte militari per ripararsi da quella rugiada notturna che intorpidiva i corpi. Così avevo rinunciato all’uso della tenda e il piccolo spazio che m’era stato destinato era rimasto disabitato da sempre.
Praticamente vivevo all’aria aperta. Ma un pomeriggio , nell’ora di riposo, il brontolio dei tuoni che lasciavano presagire l’arrivo del temporale, mi spinse a ritrovare il mio angolo sotto la tenda.
Mi sdraiai con l’intento di appisolarmi un po’ quando ebbi la sensazione che la terra su cui m’ero disteso fosse diventata più dura del solito. Non riuscendo a smussarla coi movimenti del corpo volli vedere cos’è che la rendeva così consistente. Così rinvenni, interrata e nascosta sotto un pastrano militare, una cassetta di legno dalle borchie di ferro. Non era un forziere, né tanto meno conteneva un tesoro, conteneva invece alcune bombe a mano di tipo tedesco e due rivoltelle con diversi caricatori. Rimasi esterrefatto perché la presenza di questo materiale era inspiegabile. Si trattava di armi non in dotazione al battaglione, sicuramente di provenienza esterna e quindi maggiormente sospette.
Stavo per uscire dalla tenda con l’intenzione di denunciare il ritrovamento , quando una mano si posò pesantemente sulla mia spalla spingendomi all’interno della tenda.
“Niente denunce né delazioni “, mi sentii sussurrare alle spalle. Cominciò allora una lunga trattativa con le due persone responsabili dell’occultamento. Si trattava di due allievi ufficiali, persone capaci di portare a compimento qualsiasi disegno eversivo. Mostrai pertanto una certa disponibilità a condividere le loro tesi per indurli a coinvolgermi nei loro proponimenti. Così, dopo lunghe esitazioni, ricevetti la fiducia sufficiente per essere messo al corrente di quanto si stava organizzando. L’indomani mattina era in programma una rassegna militare in Agro S. Giorgio Jonico da parte del maresciallo Badoglio. Rancore e sfiducia nei confronti del maresciallo avevano convinto i due allievi ufficiali, d’accordo con elementi esterni, ad attentarne la vita. Poiché in simili circostanze gli allievi ufficiali si presentavano in uniforme da guerra, ma senza munizionamento, non sarebbe stato difficile scaricare le pistole da breve distanza contro il maresciallo, lanciare qualche bomba a mano e fuggire. L’organizzazione e la buona riuscita dell’attentato erano garantite da elementi civili che s’impegnavano anche a prelevare e allontanare gli esecutori materiali.”
Con questo segreto nell’animo mio padre affrontò una notte tormentata. Si trovava di fronte ad un tremendo dilemma : da una parte aveva accettato di essere messo al corrente del progetto, ed era quindi tenuto ad una sorta di lealtà nei confronti dei cospiratori, dall’altra c’era in gioco la vita di uno o forse più uomini. Allora mio padre era un giovane studente di medicina ed in lui prevalse l’aspetto etico su ogni considerazione ideologica o politica, quindi scelse di denunciare il complotto, salvando la vita a Badoglio. Di questo non menò mai vanto né trasse importanti vantaggi, tanto che noi figli scoprimmo proprio dal libro citato l’episodio, che avrebbe anche potuto cambiare qualcosa nella storia patria.
“L’indomani mattina il battaglione di allievi ufficiali era schierato in un vasto pianoro di Agro S. Giorgio Jonico. Per prima cosa avevo notato la scomparsa di coloro che avevano progettato l’attentato : al loro posto c’erano altri soldati.
Con grande sorpresa di tutti venne invece il Principe di Piemonte a passare in rassegna la truppa.
Si seppe poi che il Principe, venuto a conoscenza dell’attentato in preparazione a Badoglio, aveva chiesto di sostituirlo in questo incarico quasi che provasse un certo desiderio nell’esporsi ad ogni pericolo, anche il più insignificante. Forse egli avvertiva le prime reazioni negative all’iniziativa al trasferimento reale a Brindisi.
Vidi il Principe Umberto scendere da una vettura militare in compagnia di altri ufficiali : sembrava stanco, pallido, come assonnato. Sul volto bianco faceva spicco lo scuro della barba non rasata, la cravatta fuori posto, la divisa grigioverde spiegazzata in più punti. Ci guardava mestamente, con tristezza, sembrava indagasse i nostri pensieri, come per rendersi conto di quello che i soldati pensavano di lui. Si fermò a pochi passi da noi e cominciò a parlare.
Le uniformi dei soldati che gli stavano di fronte erano stinte e stazzonate : il panno s’era schiarito fino a perdere il colore originale e il sudore l’aveva liso e spelato in prossimità delle giunture. Ormai la maggior parte dei soldati non possedeva più biancheria : non arrivava né da casa né dai magazzini militari. I calzini in particolare si erano esauriti per primi e si rimediava avvolgendo i piedi nei giornali. Inizialmente si utilizzava la “Gazzetta del Mezzogiorno” o la “Domenica del Corriere” ma si trattava di carta friabile che si sbriciolava con facilità : miglior risultato s’era ottenuto con la rivista tedesca “Signal” che era stampata su carta molto consistente. Ma anche gli scarponi si erano sfasciati e attraverso le slabbrature del cuoio si incominciava ad intravvedere il rosa delle dita. Pube e zone ascellari erano pieni di pidocchi. Tuttavia la truppa , pur così malconcia, s’era allineata con la solita disciplina. Erano soldati stanchi, erano dei soldati vinti, inutili, che non contavano più nulla.
Dentro quelle logore uniformi si stringevano gli ultimi soldati disponibili del governo italiano, gli unici che il maresciallo Badoglio o il Principe di Piemonte potessero mettere sull’attenti.
Intano ai bordi del campo s’era radunata una piccola folla di uomini e donne, e quando Umberto si allontanò per ritornare alla macchina questa gente gli si buttò letteralmente addosso, chi inginocchiandosi, chi baciandogli le mani, chi chiedendo notizie dei “principini”.
Al termine un maggiore si avvicinò a me e senza guardarmi disse : “Lei lascerà oggi il battaglione. La sua nuova destinazione è il Quartier Generale di Brindisi.”…
…Entrai a Brindisi dalla via Appia poco prima di mezzogiorno e subito scorsi la mole del Castello Svevo nei cui pressi c’era la caserma dov’ero destinato. Nel cortile della caserma riconobbi subito il maresciallo Badoglio che giocava a bocce con l’ammiraglio De Courten e altri due ufficiali di Marina.
Mi sembrò paradossale che il vecchio maresciallo non avesse altro da fare in quel momento che giocare a bocce. Mi sembrava quasi irreale vederlo sorridente nelle sua uniforme da campagna, così compreso dal gioco e lontano da ogni preoccupazione.
Fui accompagnato in una camerata dai muri sporchi e scalcinati. Mi ero appena disteso sulla brandina che un sergente mi chiamò: “Il maresciallo Badoglio ti vuol parlare !”
Discesi nel cortile e mi avvicinai sull’attenti al maresciallo. Intervenne un ufficiale che si rivolse al maresciallo Badoglio dicendogli :” Questo è quello studente allievo ufficiale che…”
Il maresciallo Badoglio fece un cenno con la testa come dire che aveva capito. Ma non si voltò. Teneva in mano una boccia e studiava attentamente dove avrebbe potuto lanciarla. Intervenne l’ammiraglio De Courten che disse :”Già! Un migliaio di studenti allievi ufficiali abbandonati in un campo di granturco… A far cosa non si sa! E’ così che si voleva vincere la guerra…”
Finalmente il maresciallo Badoglio lanciò la sua boccia e ne seguì con attenzione la traiettoria. Poi si girò con calma verso di me e mi disse : “Mi han parlato di te. Non montarti la testa : tu hai fatto solo il tuo dovere. Però meriti egualmente un riconoscimento. Invece di tenerti in questa lurida caserma ti manderò in qualche ufficio di rappresentanza dove starai certamente meglio. Vai pure!”.
Il soggiorno alla caserma brindisina si svolse in maniera tranquilla in un ambiente in cui le greche di generale abbondavano e sopravanzavano come numero i gradi di caporale o di sergente. In attesa del promesso trasferimento i giorni passavano in quiete passeggiate lungo il mare del seno di ponente.
Una mattina vi scorsi una signora solitaria, alta, solenne, che guardava il mare con uno sguardo stranamente assorto e malinconico. Mi accorsi in ritardo che si trattava di S.M. la regina Elena. Me ne accorsi quando, giunto a pochi passi da lei, fui colpito dalla compostezza della sua figura, dalla dignità della sua espressione. Forse l’unico personaggio che in tanta bufera aveva conservato la sua regalità e il suo stile, pur così semplice e materno. Guardava il mare dal quale era venuta quasi cinquant’anni prima e al di là del quale erano le sue montagne , i suoi ricordi infantili. Chissà se in quel momento, guardando quel mare, ci fu un ricordo delle origini : di Cettigne, di Cattaro, di Podgorizza.
Chissà se in quel momento non avrebbe preferito passeggiare per la Niegoseva Ulica, la strada principale di Cettigne, anziché per corso Roma a Brindisi. O forse pensava semplicemente a quel che era successo, a come si stava concludendo la sua prestigiosa carriera di regina e imperatrice, al declino cui andava incontro inevitabilmente.”
Tratto da “Il Quarantatre” di Guido Pasquinucci (Firenze 1922-Milano 2009)