Jamal Khashoggi era un giornalista saudita, auto-esiliatosi nel 2017 per liberarsi dalla censura di re Salman e del principe Mohammad, vice-premier e successore predestinato al trono. Il 2 ottobre 2018 Khashoggi, una settimana e mezzo prima di compiere sessant’anni, già sposato e divorziato tre volte, si è presentato all’ambasciata dell’Arabia Saudita (era ancora cittadino arabo) di Istanbul, per ottenere documenti necessari al suo quarto matrimonio, con la ricercatrice universitaria turca Hatice Cengiz. Non ne è mai uscito.
Le autorità saudite hanno dapprima glissato sulla sua fine; ma la polizia turca ha notato che la scena del delitto (essendo ovvio che un delitto era stato perpetrato) era stata manomessa dai sauditi; e che l’uomo, filmato dai circuiti di sicurezza, che usciva dall’ambasciata era un impostore con vestiti simili a quelli di Khashoggi. Al che i sauditi ammettevano che Khashoggi è stato ucciso all’interno dell’ambasciata, ma millantavano fosse successo in conseguenza di una collutazione che Khashoggi stesso avrebbe scatenato. Il giornalista è stato invece squartato, e il motivo di ciò non sta nella sua condotta all’ambasciata, ma nella sua dissidenza, sgradita a Mohammad bin Salman, principe ereditario dell’Arabia Saudita.
Al delitto Khashoggi si è interessato l’attore hollywoodiano Sean Penn, ma il suo “Untitled Jamal Khashoggi” non è andato oltre l’annuncio delle riprese. Bryan Fogel (già regista della commedia yiddish “Jewtopia” e dell’inchiesta “Icarus”, basata sullo scandalo del doping nel programma olimpionico russo) ha invece realizzato “The Dissident”, documentario di quasi due ore presentato nel gennaio 2020 al Sundance Film Festival di Salt Lake City.
Dopo una brevissima uscita cinematografica (il Natale dello scorso anno), “The Dissident” è stato diffuso in streaming: ma questa distribuzione è stata resa problematica dal rifiuto di Netflix e Amazon (lo stesso Jeff Bezos, che stava definendo l’acquisto di un portale d’informazione saudita, ha posto il veto all’acquisto dei diritti del film), i due colossi degli audiovisivi “on demand”.
Come notato dalla critica USA (dal Washington Post all’Hollywood Reporter), in “The Dissident” Fogel – che narra la vicenda dal punto di vista di Omar Abdulaziz, amico di Khashoggi rifugiatosi a Montreal – non svela dettagli prima ignoti: ma il grande pregio del suo documentario è il vigore con il quale denuncia, con buona pace del mondo “liberal” e della sua omertà, un assassinio politico feroce e compiuto con la disinvolta certezza dell’impunità.

Non soltanto Bezos: anche Matteo Renzi fa affari con la cricca di Mohammad bin Salman. Non molti giorni prima di assistere con i suoi nuovi soci in affari al Gran Premio di Formula 1 del Bahrein, l’ex sindaco di Firenze (soprannominato dalla stampa italiana “Renzi d’Arabia”: un’offesa gravissima al colonnello Lawrence, folle poeta guerriero di ben altra tempra rispetto al leader della Leopolda) aveva attribuito al principe saudita l’avvio di un “neorinascimento saudita”, guadagnandosi il biasimo (tra gli altri) dello stesso Fogel: “Renzi dovrebbe nascondersi per quel che ha detto”.
Non solo per quel che ha detto. Il delitto Khashoggi non è soltanto uno dei delitti che pesano sulla coscienza della classe dirigente araba: è una vergogna per gli alfieri del pensiero unico, che si ammantano del coraggio con cui dicono di cambiare il mondo (instupidendolo) ma tacciono per compiacere chi fa loro comodo (non per nulla le multinazionali e i social network tingono, per solidarietà, i loro marchi con i colori dell’arcobaleno in tutte le nazioni nelle quali le istanze LGBT siano ormai sdoganate, ma non in quelle – come l’Arabia Saudita – nelle quali invece l’omosessualità è un crimine tuttora punibile con la pena capitale, per non turbarne i governi: dicasi vigliaccheria e convenienza); oltre a una delle tante smentite della loro disinformazione.
La notizia dell’omicidio era stata accompagnata dall’annuncio, apodittico, stando al quale Donald Trump avrebbe aiutato i sauditi nello stendere una coltre di silenzio sul fattaccio: ma così non è stato. La beniamina degli europeisti Angela Merkel invece rispondeva, soltanto perché sollecitata a reagire, che la questione era e restava affare dei sauditi.
Quel che è paradossale, è che Khashoggi era un progressista. Ma il mondialismo non si fa remore: se deve fare una vittima, non guarda da dove proviene, né chi era, né cosa pensava. Il liberalismo in tinta arcobaleno è così buono e buonista che se deve fare una vittima, la fa.