Con buona pace delle pletore di sedicenti artisti che, accortisi di David Bowie (uno che, volenti o nolenti, ha condizionato tutti quelli che hanno fatto musica pop dopo di lui) soltanto nella funesta data del 10 gennaio 2016, sono accorsi a proporre l’ennesima cover di “Heroes” (dai Coldplay a David Byrne, da Lemmy Kilmister ai Blondie che la propinano dal 1980, da Johnny Depp a decine d’anonimi concorrenti di “talent show” – se l’ex leader dei Talking Heads, simpatico come l’otite, che si dice da solo di essere un’enciclopedia musicale vivente, ha omaggiato il collega con la sua canzone più nota e ritrita, i tanto vituperati – da chi non riuscirebbe mai a esprimere un centesimo della qualità del solo “Rio” – Duran Duran ne hanno celebrato il quinto anniversario della scomparsa con una scelta raffinata quale “Five Years”), l’alieno di Brixton era sceso sul pianeta Terra ben prima del 1977; e no, la sua discografia non si limita alla celeberrima copertina nella quale, con gesto innaturale e sguardo spiritato, sembra sia inchinarsi che aggiustarsi il (foltissimo, buon per lui) ciuffo.
Ancora tre settimane per visitare, nel foyer del milanese Teatro degli Arcimboldi, la mostra “David Bowie: the Passenger, by Andrew Kent”, dedicata proprio alle avventure e ai misfatti dell’artista inglese nel periodo immediatamente precedente al soggiorno berlinese: quello insomma di “Station To Station” – registrato tra cocaina, maniacali letture occultiste e settimane intere senza un’ora di sonno e crisi psicotiche a Los Angeles negli ultimi quattro mesi del 1975, subito dopo le riprese in New Mexico del film di fantascienza “L’uomo che cadde sulla terra” (diretto da Nicolas Roeg e tratto da un romanzo di Walter Tevis), un cui fotogramma fu poi usato come immagine di copertina per “Station To Station” (ancora due anni dopo Bowie farà altrettanto con il ritratto che campeggia su “Low”) – e del tour che ne seguì: “Isolar” (un gioco di parole tra “sailor”, “isola” e “solar”), 65 date dal 2 febbraio al 18 maggio 1976, tra Nord America (è stata recentemente messa in commercio la registrazione del concerto al Nassau Coliseum di Uniondale) ed Europa.

I concerti nei quali, dismessi i coloratissimi panni dell’extraterrestre Ziggy Stardust e quelli di Halloween Jack, tossico protagonista d’un musical ispirato a Orwell mai messo in scena, Bowie si presentava come “The Thin White Duke”: scheletrito (durante le riprese di “L’uomo che cadde sulla terra” arrivò a 40 chili) dall’inappetenza dovuta alla cocaina, chioma biondorossa appiccicata al cranio con abbondante brillantina, vestito invariabilmente con pantaloni e gilet neri, camicia bianca e collanina con la croce, il Duca Bianco (il soprannome accompagnerà per sempre Bowie, che recuperata la lucidità si disse però spaventato dal personaggio che aveva creato, summa dei suoi mostri interiori: un aristocratico decaduto e impazzito, un preteso erede della razza ariana vicino più a uno zombie che non a un superuomo) si presentava al pubblico – previa proiezione di “Un chien andalou”, cortometraggio di Luis Bunuel e Salvador Dalì, mostrato giusto per choccare gli astanti con la scena del rasoio – sotto una selva di luci al neon, intonando la “title-track” dell’album: sequenza (pretenziosa, avendo il solo scopo di presentare le ossessioni del Duca Bianco) di citazioni (la magnifica “Tempesta” di Shakespeare, la raccolta di brutte poesie “White Stains” del solito Crowley, cabala un tanto al chilo – “one magical movement from Kether to Malkuth”), immagini ispirate (“bending sound, lost in my circle… flashing no colour tall in my room overlooking the ocean) e per concludere la ripetizione d’un allarme sconclusionato e mai chiarito (“the European canon is here” o “European cannon”?) e liricismi grotteschi (“it’s not the side effect of the cocaine / I’m thinking that it must be love”), il tutto preceduto da sintetizzatori e chitarre che rievocano l’incedere d’una locomotiva a vapore.
Proprio una versione live di “Station To Station” (diffusa in loop da un altoparlante, mentre uno schermo ne mostra l’esecuzione sul palco – la stessa canzone apre il concerto in cui la protagonista di “Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” vede dal vivo il suo idolo: ma il concerto fu simulato per l’occasione, e la registrazione in playback proviene da “Stage”, album tratto dal secondo tour “Isolar”, del 1978, che promosse “Low” e “Heroes”) accoglie il visitatore della mostra, dedicata a Andrew Kent, amico e fotografo (come Geoffrey McCormack, che gli fece anche da corista) di David Bowie, e compagno di viaggio suo e di Iggy Pop. La carriera da fotografo rock di Andrew Kent fu breve: nel ’78, appena trentenne, decise che la vita tra le montagne dell’Idaho era più sana, rispetto ai tour con rockettari assai meno civili del Duca Bianco (Frank Zappa, Keith Richards, i Kiss).
“The Passenger” è, come lascia immaginare il titolo, un viaggio: comincia con una gigantografia di Bowie a Genova (il tour “Isolar” non fece tappe italiane – date le scarse vendite dei suoi dischi nel Belpaese, Bowie attese il 1987 – l’anno del vendutissimo album “Never Let Me Down” e del ciclopico “Glass Spider tour” – prima di fare concerti nello Stivale, con esiti alterni; ma il Nostro non aveva ancora vinto la paura dell’aereo, perciò intraprendeva in nave le trasferte intercontinentali) e continua tra immagini di camere d’albergo, cuccette del treno e la rievocazione del “Victoria Station incident”, quando Bowie, accolto nella stazione ferroviaria londinese dagli ammiratori, salì a bordo della sua Mercedes da parata salutando i fan con ampi gesti del braccio sinistro, interpretati da qualche malizioso (memore delle sgangherate dichiarazioni su Hitler “prima rockstar” rilasciate da un Bowie più sprofondato che mai nel delirio a Cameron Crowe, parassita delle rockstar che ebbe la cattiveria di pubblicarle sulla pessima rivista Rolling Stone) come “saluto nazista” (qualche giudicone è ancora convinto fossero tali, nonostante Bowie all’epoca avesse un corista ebreo, presente alla scena, e un’amante afroamericana, Ava Cherry; e abbia poi sposato la somala Iman).
Scene di viaggio, aneddoti, appunti, memorabilia (copertine di dischi, soprattutto “bootleg”; gadget del fan club ufficiale; oggettini prelevati da Kent in albergo e in treno), e le foto – bellissime, vuoi per la bravura di Kent, vuoi perché Bowie era sempre meraviglioso, anche da stralunato: “The Passenger” è davvero un viaggio, un percorso “from Station to Station”, un’occasione per vedere il mondo con gli occhi d’uno degli artisti più geniali e importanti del XX Secolo: da Genova a Londra, da Parigi a Mosca passando per Berlino, le foto di Kent restituiscono bene la curiosità di David Bowie per tutto ciò che vedesse – per ogni incontro, ogni episodio, ogni situazione, si trattasse di splendide feste negli alberghi di Parigi o della miseria dei paesi sovietici, di concerti rock affollati o di fattorie con qualche maiale, della tomba di Lenin o di Iggy Pop fotografato da Bowie stesso per la copertina di “The Idiot”. Con tanta nostalgia, ripensando a quando gli artisti più osannati dal pubblico occidentale giravano il mondo con la Polaroid, valige con libri, e tanta curiosità.
“David Bowie: the Passenger, by Andrew Kent”
Milano, foyer del Teatro Arcimboldi, via dell’Innovazione 20
Da martedì a giovedì: 10:00-15:00
Da venerdì a domenica: 10:00-20:00
Ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura
Biglietti acquistabili su teatroarcimboldi.it e ticketone.it