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Home Penna Pellicola Palco

Totalitarismi/ L’Europa e la nuova dittatura secondo Michel Onfray

di Clemente Ultimo
22 Luglio 2020
in Penna Pellicola Palco
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Le nazioni del Vecchio Continente, e più in generale quelle occidentali, vivono ormai in regime di dittatura? No, ma perché questo accada vi sono praticamente tutte le condizioni. Anche perché le politiche dei governi ed i condizionamenti culturali che si propongono – ed impongono – a società sempre più deboli e disomogenee sembrano condurre tutte verso una condizione di controllo totale dell’individuo e delle sue libertà. Una dittatura che, seppur priva di quegli orpelli esteriori – divise, parate, manifestazioni di massa – che hanno caratterizzato i regimi totalitari del XX secolo, non appare essere per questo meno pervasiva e condizionante per la vita di ognuno. Anzi, l’assenza degli aspetti esteriori tradizionalmente associati alle dittature rende ancora più facile realizzare questo nuovo modello totalitario ed applicarlo, spacciandolo come massima valorizzazione della libertà individuale. Una libertà, però, ben confinata entro recinti precostituiti, riconducibile, in ultima istanza, alla “libertà” di consumare beni. Fin troppo spesso inutili.
Questo l’asse intorno cui ruota la riflessione sviluppata da Michel Onfray nel suo Teoria della dittatura, edito per i tipi di Ponte alle Grazie. Il filosofo materialista francese per argomentare le proprie tesi sceglie di utilizzare come guida due classici della letteratura del ‘900: 1984 e La fattoria degli animali. I testi orwelliani diventano gli exempla grazie ai quali Onfray mostra la progressiva imposizione alle società euro-occidentali di un pensiero unico – riassumibile nei dogmi del politicamente corretto – teso all’affermazione di “un nuovo tipo di totalitarismo” in tempi post-totalitari. Sulla scorta della convinzione che “la dittatura è una forma politica che continua a durare attraverso i secoli e che, grazie alla propria dialettica e alla propria plasticità, riesce ad assumere cadenze diverse secondo i tempi”.
Se il volto della dittatura dolce del XXI secolo lo si intravede con una certa difficoltà, mancando appunto l’esteriorità propria delle esperienze totalitarie del secolo scorso, le modalità con cui si realizza la progressiva perdita di libertà dei singoli e delle comunità sono per Onfray ben evidenti, tanto da consentirgli di mettere a punto le tesi costitutive di una teoria della dittatura (da qui il titolo del libro) articolata in sette fasi. Sette passaggi che per il filosofo francese avranno per esito l’instaurazione di un nuovo totalitarismo che, paradossalmente, avrà nell’ossessiva ripetizione della parola libertà – ormai svuotata di ogni senso – il suo slogan principale, se non unico.
Quali sono, dunque, i sette passaggi individuati da Onfray? In primis la distruzione della libertà, ovvero la sorveglianza continua dell’individuo e la cancellazione della sua “solitudine”, intesa come momento di intimo raccoglimento, la creazione di un’opinione uniforme e la punizione dei “crimini di pensiero”. Difficile non provare un brivido se si pensa allo schieramento di mezzi – elicotteri, droni, mancavano giusto i satelliti – messo in campo nei mesi di marzo ed aprile, quando la “caccia al podista solitario” sembrava diventato lo sport nazionale o, venendo ad oggi, a qualche progetto di legge in discussione in Parlamento. Seguono poi l’impoverimento della lingua – dice niente la morte del congiuntivo e delle subordinate? -, l’abolizione della verità – la narrazione che si sostituisce al reale -, la soppressione della storia – fin troppo facile pensare alla nuova ondata iconoclasta che investe gli Stati Uniti e l’Europa o al rogo delle cattedrali in Francia -, la negazione della natura, la propagazione dell’odio. Il tutto racchiuso nell’aspirazione all’impero, che in questo caso non è una visione ghibellina d’Europa – dunque rispettosa delle identità -, piuttosto la volontà di “indottrinare i bambini; gestire l’opposizione; governare assieme alla classe dirigente; ridurre in schiavitù grazie al progresso; dissimulare il potere”. Ovvero, per il filosofo francese, puntare al trionfo dell’Europa di Maastricht.
Di particolare interesse, a nostro modesto giudizio, l’analisi che Onfray dedica all’uso della lingua. O meglio, al suo costante impoverimento, frutto di scelte per nulla casuali da parte del sistema mediatico ed educativo. La banalizzazione del linguaggio – in sintesi – finisce per rendere impossibile decifrare un testo complesso, esercitare un’azione di analisi critica per chi è ormai abituato al linguaggio semplificato dei social media. Questo analfabetismo di ritorno è l’elemento che rende possibile l’esistenza di una neolingua sul modello orwelliano, ovvero di una lingua che consente di “pensare due cose contrarie allo stesso momento e di considerale entrambe valide”. In pratica si consente al decisore di riscrivere costantemente la storia, di stabilire di volta in volta quale sia la verità più utile ai propri interessi.
Molti sono gli stimoli di riflessione offerti dalla lettura del testo di Michel Onfray, decisamente troppi per citarli tutti. Impossibile, però, non fare almeno un breve cenno al tema dell’odio. In una società che si vuole per definizione non violenta, che punta a mettere al bando – quantomeno moralmente – ogni attività che possa richiamare seppur da lontano la violenza (sport particolarmente “duri”, caccia e via elencando), in cui la peggiore accusa che si possa rivolgere ad un individuo è quella di discriminare qualcuno o qualcosa – e qui l’elenco delle possibili vittime è praticamente infinito -, ebbene in questa società pacifista (forse sarebbe il caso di dire debosciata), c’è una carica d’odio con pochi precedenti nella storia. Si tratta, però, di un odio “buono” perché indirizzato contro i “cattivi”. Potenza della neolingua.
“Grazie al crollo della morale tradizionale – scrive Onfray – e all’impunità dell’anonimato resa possibile dai social, l’odio è ormai moneta corrente. Permette, per esempio, di bloccare dibattiti, discussioni, scambi e contraddittori usando il discredito sulle persone. È la logica del capro espiatorio che prende il sopravvento.
Nell’ambito della cultura postmoderna, l’odio viene riservato a chi non si inginocchia davanti alle verità rivelate della religione che si autoproclama progressista. A mettere in circolo l’odio senza alcun ritegno non è solo la stampa di Stato, cioè la stampa sovvenzionata dai soldi pubblici; ci sono anche i media privati, che, per quanto privati, per vivere e sopravvivere sono ugualmente dipendenti dai finanziamenti dello stesso Stato di cui sopra. L’odio è davvero la base della loro impresa commerciale.
L’insulto, il disprezzo, l’ingiuria, l’oltraggio, l’invettiva e l’offesa dettano legge con il pretesto della libertà di stampa e, più in generale, della libertà di espressione – una libertà di espressione che si rivela spesso a senso unico.”

Michel Onfray – Teoria della dittatura
Ed. Ponte alle Grazie – pag. 224 – euro 16,50

Tags: democraziafilosofiaMichel Onfraytotalitarismo
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