C’era una volta la Lega di Bossi,il suo carismatico fondatore, un partito che faceva del radicalmente con le sue origini e con le sue terre, quelle del nord, la sua essenza e la sua stessa ragione d’essere. Tanta acqua è passata sotto i ponti costellata da successi ma anche da grande delusioni e debacle. Poi quando il senatur ha dovuto fare i conti con i problemi di salute e d’età, è arrivato uno dei suoi delfini ( che i bene informati raccontano Bossi avesse nemmeno in troppo simpatia, perché astuto com’era temeva la sua grande ambizione), il giovane Matteo Salvini, che ha cercato di dare una sferzata vera e propria ad un partito che ormai era ridotto ad un sorta di ectoplasma, con consensi poco sopra il 4% e poca o nessuna possibilità di poter giocare ancora un ruolo fondamentale nello scacchiere politico italiano.
In pochi anni Matteo ha operato una vera e propria rivoluzione all’interno del partito, smontando tutti i punti che avevano permesso di connotarsi come un grande partito del nord. Basta simboli inneggianti al sole delle Alpi, basta Roma ladrona, basta slogan coloriti sui meridionali assistiti e scansafatiche, ma nuova attenzione ai temi nazionali come lavoro, fisco, sicurezza. E i risultati hanno premiato lo sforzo di un Salvini che mai si è tirato indietro per mettere la faccia di fronte alla svolta operata. Il 34,3% alle Europeo del 2019 ha rappresentato l’apice di questo percorso e la sua consacrazione a leader nazionale.
Ma dopo quell’exploit qualcosa evidentemente nel giocattolo si è rotto, forse come Icaro, Salvini si è sentito un pò troppo forte e sicuro, forse le tante invidie e gelosie che il successo di un leader e crea anche tra i suoi stessi uomini, qualche scelta sbagliata come quella di lasciare il governo giallo verde sperando in elezioni anticipate mai ottenute.
Sarà come sarà adesso la Lega veleggia in un sempre ragguardevole 15% ma certo non si può dire che l’operazione partito nazionale si possa dire realizzata, anzi forse, e questo deve far maggiormente riflettere i vertici leghisti, si rischia di perdere anche lo zoccolo duro di alcune roccaforti leghiste, in Veneto come in Lombardia. E chiaramente con le prime sconfitte sono arrivati i distinguo e le precisazioni su scelte che fino a qualche mese fa venivano appoggiate incondizionatamente da tutti i vertici leghisti, Giorgetti compreso (qualcuno forse troppo presto dimentica di come fosse stato proprio il numero 2 del partito a spingere ben prima della decisione del segretario per rompere con i cinque stelle).
Occorre perciò una seria riflessione per cercare di rimettere i cocci a posto in un partito che sembra avere perso quella sua forte caratterizzazione che lo aveva reso in grado di superare tutte le peripezie. Di certo la colpa non può essere tutta del “conducente”, così come nel momento del trionfo, tutti i meriti non potevano essere attribuiti solo a Matteo Salvini. Passare dall’altare alla polvere, si sa, in politica, come nella vita è questione di un attimo, per informazioni chiedere all’altro grande Matteo della politica italiana.
Ma certamente al di là delle polemiche e dei processi, che di quelli c’è sempre tempo per farli, ora sembra essere arrivato il momento delle scelte delicate da assumere e di quello che vuole e deve essere il percorso futuro di un partito, che forse deve ancora una volta cambiare pelle. Le prossime elezioni in Lombardia e Veneto potrebbero essere il vero spartiacque. Una sconfitta in una delle due regioni, per ora difficilmente ipotizzabile (anche se anche perdere Verona sembrava impensabile), potrebbe avere un vero e proprio effetto dirompente su una Lega che deve fare i conti con un alleato sempre più scomodo e in perenne crescita come il partito della Meloni. Quello che adesso la Lega deve ritrovare è lo spirito originario di bossiana memoria, che proprio sui territori in cui era nata, aveva costruito la base di consenso con cui pesare poi a Roma. Mentre deve forse scacciare dal proprio elettorato quell’idea di imborghesimento, che forse comincia a trapelare dopo questi mesi di governo prima con i 5 stelle ed ora per sostenere Draghi.
Salvini certamente non può essere accusato di non essersi impegnato sui territori con una dedizione ed un impegno encomiabile. “Stare dietro a Matteo durante una campagna elettorale è un’impresa titanica ed è difficile capire dove trovi tutte quelle energie e risorse” racconta un deputato vicinissimo al segretario. Ma forse anche questo ha impedito al segretario di focalizzarsi sulle beghe interne e sui contrasti che in un partito composito come le Lega si stavano creando, generando le prime crepe, anche e soprattutto tra gli amministratori locali di quelle regioni che da sempre rappresentano lo zoccolo duro del serbatoio di voti leghista.
Matteo, da animale politico quale è, ha però fatto prevalere la sua ansia di conquistare una dimensione nazionale, che lo ha portato per alcune settimane ad insediare il Pd, persino nella sua storica roccaforte emiliana. Forse qualcuno adesso dimentica che senza il disturbo delle sardine, improvvisamente sparite dopo poco tempo, le elezioni regionali avrebbero potuto avere un altro epilogo e probabilmente anche la storia della Lega e della situazione politica nazionale.
La Lega ora probabilmente focalizzerà il suo sforzo nel riconquistare le posizioni perse al nord, dove spera di tornare a giocare un ruolo di primo piano, magari anche cercando di togliere voti non solo al Pd, ma anche al partito della Meloni. Solo così potrà poi il segretario, tornato forte e solido all’interno, pensare a come organizzare la prossima tornata elettorale nazionale, che dovrà per forza di cose passare da una alleanza con il centrodestra, ma senza trascurare chi come Calenda e lo stesso Renzi, potrebbe anche guardare proprio ad una Lega più moderata, considerando che ambedue continuano ad avere un rapporto assai tumultuoso con il centrosinistra e con il Pd di Enrico Letta.