Ad un anno ormai dal termine della guerra che ha travolto il Nagorno Karabakh, quest’angolo di Caucaso è ben lontano dall’aver trovato pace. Anzi, a ben guardare la situazione è ancora più tesa e, potenzialmente, più pericolosa di quanto non fosse alla mezzanotte del 10 novembre 2021, momento dell’entrata in vigore del cessate il fuoco firmato da Erevan e Baku grazie alla mediazione del Cremlino.
Un cessate il fuoco che non ha risolto le cause profonde del conflitto, limitandosi a congelare – una volta di più – i risultati scaturiti dal confronto sul campo di battaglia: questa volta la vittoria è arrisa agli azeri, capaci di riconquistare non solo i sette distretti annessi dagli armeni del Nagorno Karabakh dopo la vittoriosa guerra dei primi anni ’90 del secolo scorso, ma anche ampie fette – inclusa la città di Shushi – della piccola Repubblica di Artsakh (non riconosciuta a livello internazionale). Solo un intervento deciso della comunità internazionale sullo status della Repubblica di Artsakh avrebbe potuto incidere realmente sul futuro della regione, relegando finalmente nel baule dei sogni impossibili la convivenza tra azeri ed armeni e riconoscendo – finalmente! – de iure l’indipendenza de facto del Nagorno Karabakh. Così invece non è stato, si è preferito accettare i risultati della vittoriosa offensiva azera scatenata il 27 settembre 2021.
Ma proprio sull’onda di quell’incontestato – ed incontestabile, per gli esiti raggiunti dopo trent’anni di sconfitte – risultato, Baku ha costantemente alzato la posta nel confronto con Erevan.
La cronaca di questi ultimi tredici mesi è scandita da ripetuti incidenti di frontiera – in qualche caso vere e proprie battaglie con l’impiego di armi pesanti – che, novità di non poco conto, non si sono limitate alla linea di demarcazione tra Azerbaigian e Nagorno Karabakh, ma hanno interessato la stessa Armenia. Ovvero non i confini di uno “stato fantasma” come la Repubblica di Artsakh, bensì quelli di una nazione indipendente da trent’anni, riconosciuta in tutti i consessi internazionali.
Adducendo come pretesto l’incerta delimitazione dei confini tra quelle che allora erano due repubbliche “sorelle” dell’Unione Sovietica, l’Azerbaigian di Aliyev ha messo a segno una serie di colpi di mano in regioni strategiche (aree minerarie nel nord, snodi stradali e simili) che quasi sempre si sono risolti solo grazie all’intervento dei reparti russi presenti nell’area o comunque tramite la mediazione del Cremlino, chiamato ad un difficile esercizio di equilibrismo tra due Paesi – Armenia ed Azerbaigian – entrambi utili alla politica caucasica di Mosca. Ma l’obiettivo – chiaro e dichiarato – di Baku va ben oltre qualche aggiustamento alla linea di confine, il traguardo da raggiungere è il controllo sul “corridoio di Zangezur”, ovvero una linea di collegamento con l’exclave azera del Nakhichevan, territorio separato dal resto dell’Azerbaigian dalla provincia armena di Syunik.
Del resto già il nono punto del cessate il fuoco che ha posto fine alla seconda guerra del Nagorno Karabakh, dedicato al ripristino della circolazione nelle regioni interessate dal conflitto, contiene una espressa previsione dell’impegno armeno a garantire “la sicurezza dei collegamenti di trasporto tra le regioni occidentali della Repubblica dell’Azerbaigian e la Repubblica Autonoma di Nakhchivan”, inoltre “previo accordo delle Parti, sarà avviata la costruzione di nuove infrastrutture che colleghino la Repubblica Autonoma di Nakhchivan con le regioni dell’Azerbaigian”.
Più che la riconquista dell’interno Nagorno Karabakh, dunque, è questo l’obiettivo principale di Baku. E non solo. A dare corpo alle ambizioni azere c’è, infatti, la Turchia: del resto senza il determinante contributo in uomini, mezzi (ad iniziare dai micidiali droni TB2 Bayraktar che hanno letteralmente annientato posizioni e colonne karabakhe, insieme a quelli made in Israel) e tecnologia di Ankara difficilmente la guerra dell’autunno 2020 si sarebbe chiusa con un bilancio così favorevole per gli azeri. Il sostegno turco all’Azerbaigian va, però, ben oltre un generico richiamo alla solidarietà panturca o all’ostilità verso l’Armenia, rientra piuttosto in una visione strategica di lungo periodo. “Con la vittoria nel Nagorno Karabakh – scrive Daniele Santoro – Turchia e Azerbaigian hanno dunque formalizzato la promessa di matrimonio annunciata da Mustafa Kemal in occasione del decimo anniversario della fondazione della repubblica, quando il Gazi avvertì i suoi nipoti di non dimenticare mai la comunione di destino che lega per l’eternità turchi e azerbaigiani. Intimandogli di adottare il popolo fratello non appena se ne fosse presentata l’occasione”*.
Qui, tuttavia, non si tratta solo di “adottare” gli azeri, quanto di creare un continuum territoriale – grazie appunto al “corridoio di Zangezur” – che unisca fisicamente Turchia ed Azerbaigian, ovvero capace di proiettare Ankara nel cuore dell’Asia centrale. Restituendole quella profondità imperiale che, sul versante occidentale, la Turchia sta costruendo rafforzando la sua presa sulla parte settentrionale di Cipro – quella Repubblica turca di Cipro del Nord non riconosciuta a livello internazionale – e sulla Tripolitania. In quella Libia colpevolmente abbandonata dall’Italia.
Considerate queste dinamiche, è di tutta evidenza che il Caucaso resterà nel prossimo futuro un’area calda. A dispetto degli accenni di distensione cui si è assistito in questi ultimi giorni, caratterizzati da uno scambio di prigionieri tra Armenia ed Azerbaigian che ha fatto seguito all’incontro trilaterale di Bruxelles del 14 dicembre scorso. Il “corridoio di Zangezur” resterà un punto d’attrito tra il blocco turco-azero e l’Armenia, con il rischio concreto che se Erevan non dovesse cedere dinanzi alle pressioni azere il conflitto possa tracimare dal Nagorno Karabakh alla regione di Syunik, innescando reazioni imprevedibili tra i Paesi dell’area, ad iniziare dall’Iran.
Questo scenario così complesso dovrebbe spingere le cancellerie europee a non sottovalutare la posizione dell’Armenia, che ha attualmente in Mosca l’unico vero sostegno, relegando la vicenda karabakha e quella di Syunik nel vago universo degli effetti di lungo – forse lunghissimo – periodo della dissoluzione dell’Unione Sovietica. La spinta imperiale turca non interessa solo il Caucaso e l’Asia centrale – regioni già di per sé strategiche – ma anche il vicino Levante ed il Mediterraneo. Ad oggi sembrano essersene accorte solo Parigi ed Atene: sarebbe ora che l’Europa – prima ancora che il fantasma chiamato Unione Europea – ne prendesse atto.
* Perché la Turchia deve tornare impero entro il 2053 in Limes “La riscoperta del futuro” ottobre 2021