Ricostruire la storia della destra postfascista, settant’anni di sogni, delusioni, vittorie e sconfitte, è cosa complessa, difficile. Volere poi narrare le vicende della Fiamma (e dintorni) inserendole in un contesto particolare, atipico come quello triestino è un impresa ardua. Pietro Comelli e Andrea Vezzà ci sono riusciti. Il loro denso saggio “Trieste a destra” — che abbiamo analizzato su Destra.it in occasione della prima edizione — è un libro che convince. Senza alcuno sconto ma con lucidità (e un po’ di sana partecipazione), gli autori hanno indagato un percorso articolato, plurale, a volte contraddittorio ma mai scontato. Da qui la seconda edizione (editore Trieste Stampa, euro 22), arricchita da nuovi materiali, tante belle foto e, soprattutto, impreziosita dalla densa introduzione del professor Giuseppe Parlato. Nella prefazione, il docente romano propone una lettura ragionata e profonda sul movimento giuliano, analizzandone successi e limiti e inquadrandone le vicende nel più ampio quadro del lunghissimo dopoguerra italiano. Una riflessione importante che proponiamo volentieri all’attenzione dei lettori. (M.V)
Trieste e Movimento sociale italiano: quasi una tautologia? Questo documentato volume di Pietro Comelli e Andrea Vezzà affronta un tema di grande interesse nella storia della destra italiana, nella storia del dopoguerra triestino ma forse anche un tema della storia nazionale, e cioè il rapporto tra la destra politica e la questione giuliana, dopo l’ultimo conflitto mondiale. Un tema finora trascurato, così come è stata trascurata la storia della destra italiana, come se fosse una historia minor rispetto alle storie delle altre famiglie politiche.
Trieste per il Msi era l’isola felice in un Nord che non ammetteva sconti ai postfascisti e che soprattutto non ammetteva contatti, alleanze, strategie comuni in funzione anticomunista: i fascisti andavano isolati e possibilmente ricacciati nel loro nostalgismo senza prospettive politiche.
Trieste in qualche modo, per una decina d’anni, ha contraddetto questo schema.
Fino a quando Trieste è stata in bilico tra Italia e non-Italia (Jugoslavia, Alleati, terra di nessuno, città libera, eccetera) il Msi è stato importante se non altro per dimostrare agli scettici che una maggioranza netta filoitaliana a Trieste c’era. E il fatto che non si trattasse di una maggioranza travolgente e “totalitaria” – si sarebbe detto durante il regime – rendeva ancora più interessante e indispensabile la presenza della Fiamma.
In effetti, negli anni Quaranta e Cinquanta la maggioranza dei filo italiani era attestata su poco più del 60-65%; dall’altra parte vi erano comunisti togliattiani, comunisti filotitini, socialisti frontisti, autonomisti, indipendentisti, sloveni di varia osservanza. Il Msi con il suo 11,5% raggiunto nel 1952 e con il 15,7 % conquistato nelle politiche del ’58 rappresentava una fetta non trascurabile della parte italiana.
Si tratta di cifre consistenti che superano di gran lunga i risultati del resto del Nord e che si allineano a quelli delle grandi città del Sud e di Roma. Le ragioni sono facilmente intuibili, vista la impostazione nazionalista del Msi a livello nazionale e visto il “bisogno” di Italia di molti settori della società triestina. A Trieste il Msi ha fatto comodo perché permise alla Dc di non avere paura di definirsi nazionalista, di difendere alcune posizioni anche duramente: pensiamo al sindaco Gianni Bartoli e al suo lavoro di tutela della dignità triestina dagli attacchi degli Alleati e da quelli d’oltre confine. Forse si sarebbe comportato così ugualmente, ma certamente l’avere alla destra una forza che non era costretta a mediare con il potere giovò alla forza della Dc. E quando da Roma giunsero al sindaco consigli a una maggiore prudenza, fu facile per il primo cittadino dimostrare che era necessario assumere posizioni forti per evitare che i moderati che votavano Dc diventassero improvvisamente fautori della destra estrema.
Ma Trieste servì anche al Msi. Dopo la prima segreteria Almirante il Msi era piuttosto in crisi: rinchiuso nell’angolo della nostalgia, considerato funzionale alla Dc per essere appunto soltanto nostalgico e orgogliosamente fuori dai giochi politici, con la “pattuglia” di cinque deputati eletti, ininfluenti e collocati in alto a destra a prendere insulti da tutti. Quando Augusto De Marsanich sostituì Giorgio Almirante era cambiato il quadro politico. Alcide De Gasperi, nonostante la forza parlamentare della coalizione centrista in virtù della quasi maggioranza assoluta Dc, temeva le elezioni amministrative del 1951 e del 1952, nelle quali l’exploit Dc non si sarebbe più potuto ripetere; ma soprattutto temeva la perdita della maggioranza nelle elezioni politiche del 1953; la cosiddetta “legge truffa” (così chiamata dai comunisti perché non potevano avere contezza di quello che sarebbe successo in Italia successivamente, a livello di fantasia creativa nella legislazione elettorale) fu pensata proprio a quello scopo.
Il suo fallimento nelle elezioni del ’53 fece cambiare alla Dc completamente registro. Come si è detto, il Msi fino al ’50 era stato utile perché nostalgico e quindi ininfluente sul quadro politico; dal 1950 al 1953 era invece stato considerato pericoloso per la Dc (si arrivò anche a impedire il III congresso del Msi a Bari alla fine del 1950), soprattutto per la sua politica di apertura ai monarchici e agli embrioni dei progetti di “grande destra”. Dopo il 1953 invece, il centrismo azzoppato dalle elezioni politiche (aveva la maggioranza al Senato ma non alla Camera) della destra aveva bisogno, come dimostrò l’appoggio esterno missino ai governi Pella, Zoli, Segni e Tambroni nonché l’elezione di Giovanni Gronchi al Quirinale. Da sottolineare che se l’appoggio a Giuseppe Pella e a Antonio Segni non era stato determinante, ad Adone Zoli e a Fernando Tambroni lo era stato.
Questa situazione, i cui riflessi triestini il volume documenta, indusse Arturo Michelini, nel frattempo diventato segretario al posto di De Marsanich, ad accelerare la trasformazione del Msi in un partito di destra presentabile e moderata, fino al punto di arrivare al congresso di Genova (1960) con un progetto di rifondazione “democratica” della Fiamma.
In questo quadro, la questione di Trieste diventava essenziale per la nuova linea politica missina. Trieste voleva dire solo Italia, non fascismo, e soprattutto a due passi da Trieste c’era la provvidenziale (per il Msi) cortina di ferro, c’era uno stato comunista anche se sui generis come quello di Tito. Il pacchetto era ghiotto: foibe, esodo, confini naturali devastati, territori da sempre italiani diventati, in barba al più elementare principio di nazionalità, territorio straniero; in più, il responsabile di questo dramma non era americano ma comunista.
Per il Msi si presentava l’occasione storica: trasformare la contrapposizione fascismo-antifascismo sul quale la Fiamma fino a quel momento era stata inchiodata, nella contrapposizione comunismo-anticomunismo, trovando quindi alleanze e considerazione presso altre forze politiche che del Msi non potevano privarsi.
Di qui il successo del Msi a livello nazionale ma soprattutto le azioni di piazza che la Giovane Italia andava facendo sulla questione di Trieste e delle terre di nuovo irredente, che raccolsero ragazzi e giovani che non erano fascisti e che non lo erano neppure di famiglia; per molti di loro, i cortei della Giovane Italia su Trieste, l’esodo e le foibe furono la prima mobilitazione politica della loro vita.
Certo, dopo il 1954 e la risoluzione della questione triestina, la situazione nel resto d’Italia cambiò per il Msi, che così aveva perso l’arma in grado di scardinare l’assedio mediatico e politico avversario. Tentò anche con l’Alto Adige, ma fu diverso: c’era, è vero, la possibilità di dire alcune parole definitive sul nazismo, visto che la maggior parte degli estremisti erano più che tedeschi, nazisti, ma veniva meno, evidentemente, il problema dell’anticomunismo che invece fu la carta vincente a Trieste.
La città giuliana non è stata, tuttavia, soltanto un importante laboratorio in merito al rapporto con la destra politica; è stata anche la città nella quale la destra italiana, il Movimento sociale, apparve al proprio interno diverso da quello nazionale, almeno in apparenza.
Evocato dagli autori in introduzione, il “fascismo di frontiera” è un concetto storiografico che da tempo appassiona gli studiosi. Si tratta di un particolare fascismo che si forma sulla sovrapposizione palmare di due “categorie” politiche, quella di fascismo e quella di Italia; per il fascismo di frontiera, fascismo vuol dire Italia e Italia vuol dire fascismo. Ogni altra connotazione del fascismo (stato etico, polemica antiborghese, corporativismo, eccetera) ovvero ogni “declinazione” del fascismo (aristocrazia, sinistra fascista) è superflua. Il fascismo triestino ha più familiarità con il populismo, la retorica, anche con la violenza, piuttosto che con l’elaborazione concettuale di un fascismo che aspira a discutere di totalitarismo o di altre formule ideologiche. Un fascismo, quindi, dal basso tasso di ideologia ma dall’alto tasso di reattività politica, anche fisica. Con questo non si vuole dire che sia stato un fascismo privo di cultura o allergico alla elaborazione concettuale; si vuole dire soltanto che l’endiadi di Italia e fascismo (a Trieste, come in Istria e come a Fiume) non aveva bisogno di approfondimenti dottrinali su che cosa fosse il fascismo. Il fascismo era quello che aveva ridato dignità alla nazione e che era nato dalla guerra che aveva riportato le terre irredente alla madre patria. E ciò bastava.
Il neofascismo triestino è, in buona misura, figlio di questo modello. Nel Msi a livello nazionale, Almirante ha avuto sempre una corrente che non è mai stata maggioranza, almeno fino al 1969, quando ritornò alla segreteria del partito. A Trieste invece il Msi fu sempre nettamente almirantiano, mentre la destra moderata di Michelini, che propugnava in qualche modo un neofascismo “meno fascista” ebbe minori consensi. Addirittura fuori gioco, nell’ambiente giuliano, i “figli del sole” rautiani, i quali inseguivano una concezione elitistica e aristocratica del fascismo (o del nazismo), che a Trieste non trovarono mai terreno particolarmente fertile. Invece Almirante, con la sua notevole capacità politica, con la sua tendenza a pensare a un Msi nel quale ci fossero tutte le componenti possibili, rinunciando a operare chiarimenti di carattere culturale e soprattutto non abbandonando le radici fasciste, talvolta rivendicate con orgoglio, rappresentava il neofascismo più compatibile con la città giuliana.
Come hanno notato gli autori, a Trieste la morte di Michelini segnò la fine delle correnti nel locale Msi: se prima la Fiamma si divideva tra Michelini e Almirante (e, per altro, spesso le due componenti andavano d’accordo), dopo il 1969 all’interno del Msi triestino non ci fu più la lotta fra le correnti perché anche gli ex micheliniani si riconobbero nel gruppo di Almirante.
Interessanti gli anni Settanta e Ottanta, con la figura di Almerigo Grilz come catalizzatore di un mondo in forte evoluzione. Quello che nel resto d’Italia si fece attraverso il rinnovamento rappresentato dalla corrente rautiana, a Trieste si fece sotto l’egida di Almirante.
La scomparsa di Grilz privò Trieste del personaggio più intelligentemente creativo e innovatore dal punto di vista della comunicazione politica, ma anche delle tematiche da affrontare. Con la morte di Almirante, la successione di Gianfranco Fini e la crisi della prima repubblica, il Msi si apprestava a diventare Alleanza nazionale, con i periodi di governo della città, della provincia e della regione.
Tutto questo si conclude con l’amarezza degli ultimi tempi, nei quali il vecchio mondo missino sembrò non avere seminato nulla. O forse il neofascismo aveva raschiato il barile del consenso e l’equivoco tra destra e neofascismo era destinato a venire alla luce. La destra ha sempre visto il neofascismo con sospetto e con insofferenza, mentre il neofascismo ha sempre considerato il concetto di destra una categoria politica obsoleta ed equivoca.
Proprio la linea di Almirante ha voluto che queste due componenti convivessero fino alla fine: chi, nella storia del Msi, aveva preteso il chiarimento su questo tema, da una parte o dall’altra, aveva dovuto prendere la via dell’esilio politico, come il triestino Ernesto Massi, che aveva insofferenza per ogni coniugazione di destra del partito, o come accadde alla componente di Democrazia nazionale, che non sopportava invece l’alternativa al sistema e voleva una destra moderna, meno fascista senza rinnegare il ventennio. Allo stesso modo, alcuni intellettuali – come Giano Accame, Marco Tarchi ed Enzo Erra, solo per citare i più significativi – avevano preferito non restare in un movimento dove c’era posto per tutti ma dove mancava una precisa strategia culturale. Un problema, quest’ultimo della strategia, per anni era stato considerato superfluo o addirittura pericoloso per l’unità del partito. Mancando la storicizzazione del fascismo, mancando una riflessione sul ruolo della destra nella società italiana, il neofascismo si trovò a un certo punto a corto di argomentazioni e di linea politica, di strategia a lungo periodo. Si era preferito lo sventolio dei tricolori e le adunate che scaldavano gli animi, piuttosto che soffermarsi a studiare quali fossero le prospettive da seguire.
In questo senso, questo libro rappresenta una storia conclusa e questa è anche la sua validità, perché ogni volta che si opera una storicizzazione si riflette necessariamente sul passato, si ragiona inevitabilmente sul presente ma soprattutto si pongono le condizioni per potere pensare a come potere utilizzare il bagaglio di vita che la destra italiana ha costituito in oltre mezzo secolo di storia.
Giuseppe Parlato