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Home Economia

Turbocapitalismo/ La struttura sociale della sociopatia manageriale

di Francesco Marotta
14 Giugno 2019
in Economia, Home
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Turbocapitalismo/ La struttura sociale della sociopatia manageriale

Le strutture del neo-liberalismo hanno abolito tutte le regolamentazioni e le restrizioni dei movimenti sistemici del capitale. Sono stati aboliti tutti i limiti alle sue azioni, applicando su scala mondiale le deregolamentazioni finanziarie e imponendo il regno degli azionisti internazionali. Un monopolio con delle strutture sociali, intrise della sociopatia manageriale che ha plasmato la psiche: le strutture sociali del neo-liberalismo hanno creato un nuovo «tipo». Un nuovo «tipo» di uomini che seguono unicamente la disposizione delle strutture, scatenati quando le strutture si scatenano, del “tutto è lecito” quando le strutture lo permettono loro.

La finanziarizzazione dell’economia che impone i diktat degli azionisti internazionali, cuore dell’Occidente e divulgata dall’OMC (L’Organizzazione mondiale del commercio), guarda dall’alto la guerra della competitività dei poveri. Uno dei pallini del capitale per standardizzare i salari e le prestazioni dei lavoratori in un unico modello orizzontale. In questo, la “politica” de-politicizzata ha un ruolo importante: quando si adopera per fare delle leggi sul lavoro, tende a portare lo status del lavoro il più vicino possibile a quello della liquidità finanziaria.

Possiamo dire che in qualsiasi contesto della società, alla fine della post-modernità, la simulazione del reale e del vero ci ha resi dipendenti da cose che possono essere concesse con la stessa facilità, alle attività del mercato azionario. Le deregolamentazioni di qualsiasi tipo, quelle economico-finanziarie e quelle degli stipendi da fame per tutti, della mancanza di regole riscritte ad appannaggio di pochi, contrariamente ad un ordine e a delle regole precise hanno soppiantato il «modo di stare al mondo» delle società tradizionali ma, non del tutto quello delle comunità di destino.

Indubbiamente, questa sociopatia manageriale assorbe profondamente gli strati sociali. E più si scendono i gradini della scala sociale più aumenta la paura del mancato «godimento» attraverso forme anche violente. Alimentando quel nomadismo post-moderno ben descritto da Michel Maffesoli, della ricerca di un paradiso da cartolina, del turista di massa in stato permanente, che è diventato a tutti gli effetti una alienazione esistenziale tipica del post-moderno. Il meraviglioso ideale della competizione generalizzata del liberalismo è giunto ai titoli di coda, rovinosamente. Ormai da un pezzo, anche se nessuno pare essersene reso conto.

Per comprendere l’epoca in cui viviamo, i suoi fenomeni e per interrogarsi sulla psiche, bisogna battersi per un radicamento spirituale e culturale. Certo, per esempio non si può essere d’accordo su tutte le elaborazioni del filosofo Giorgio Agamben. Ma nel suo saggio “Il Regno e il Giardino”, edito da Neri Pozza, troviamo degli elementi molto interessanti: è riuscito a cogliere l’argomento sulla ricerca di un paradiso che «è un paradiso essenzialmente perduto» e ciò che riguarda, la natura umana come «un qualcosa di essenzialmente manchevole».

Ponendo delle critiche, a mio avviso calzanti, alla dottrina agostiniana del peccato originale. Ma per ciò che ci riguarda, possiamo anche leggere con occhi sgombri il De opere monachorum,senza paura di dire che la concezione del lavoro del Santo, ovvero, «con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi» (2 Ts 3,8), assomiglia molto ad un girone dantesco e meno al Giardino dell’Eden, da coltivare e custodire in letizia.

Senza fare paragoni azzardati, non trovate che si avvicini molto più all’idea prospettata dagli esegeti del capitale? A quel paradiso futuro che presto giungerà, salvo spostare la sua venuta di giorno in giorno, di anno in anno. Perdendolo, chissà perché, ogni volta per un soffio. Insomma, non vedendone mai le fattezze, neppure da lontano…  

Tags: economiafilosofia
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