Turchia. Mancano otto mesi alle prossime elezioni (si vota il prossimo giugno) e il presidente Erdogan traballa nei sondaggi. Nonostante il frenetico attivismo internazionale del governo di Ankara — uno faticosissimo sforzo geopolitico proiettato tra l’Ucraina, la Russia e il Caucaso, i Balcani e l’Egeo, la Siria e l’Africa — l’economia è in profondissima crisi e la valuta turca boccheggia (una lira vale 0,055 dollari). Secondo le stime ufficiali (ma quelle indipendenti sono ancora più severe…) fissano l’inflazione a settembre un più 83,45 per cento a su base annua e i prezzi volano infierendo sul potere d’acquisto dei ceti più deboli.
Erdogan però non demorde e a fronte del malcontento crescente ha deciso di stringere ancor più i bulloni della censura. Non pago d’aver chiuso dal mancato golpe del 2016 (una storia ancora tutta da scrivere…) ad oggi 189 media e arrestato 319 giornalisti, di cui 36 ancora in galera, il Parlamento a votato a maggioranza — Akp, il partito di Erdogan, e l’alleato MHP, lo scorso 13 ottobre l’ennesima legge liberticida. In tutto quaranta articoli che “disciplinano” la diffusione di notizie sulla rete.
Una misura urgente secondo il governo per “combattere la disinformazione e le fake news”. Sarà. Ma il dispositivo giuridico, duramente osteggiato dalle opposizioni di destra e sinistra, è di una vaghezza imbarazzante. L’articolo 15, ad esempio, prevede la radiazione dei giornalisti che non si attengono “alle regole morali”. Nulla di più e nulla di meno. A sua volta l’articolo 29 consente condanne da uno a tre anni di carcere per chiunque diffonda sul web “informazioni pericolose” lesive per “l’unità nazionale”, “l’ordine costituito” o “divulghi segreti di Stato”. Una panoplia di motivazioni volutamente fumose, generiche che però offrono alla magistratura (da tempo allineata ai voleri del presidente) un potere discrezionale enorme. In più le piattaforme da adesso verranno pesante sanzionate se si rifiutano di fornire alla giustizia i nomi degli utilizzatori. Tutto dev’essere controllato e, nel caso, represso.
A contestare la legge oltre ai partiti d’opposizione vi è il mondo (o ciò che ne rimane…) dell’informazione turca. In un comunicato congiunto l’Associazione degli autori, il Comitato per la protezione dei giornalisti e i sindacati di categoria hanno ribaditouna volta di più che: «la disinformazione è un problema importante e deve essere combattuta, ma non al prezzo della restrizione dei diritti dei giornalisti e della libertà d’espressione». Parole importanti che però non scalfiscono il diktat dell’AKP. Ahmet Ozdemir, capofila dei parlamentari erdoghiani ha risposto alle critiche con sufficienza: «Nessuna libertà è senza limiti. Noi abbiamo cercato di proteggere le libertà per quanto possibile prendendo delle precauzioni affinché queste libertà non nuocciano alla libertà degli altri». Punto.
A ben vedere la fobia del ferrigno sultano verso i social è cosa risaputa. Già nella primavera del 2013, a fronte del movimento di Gezi Park — un’ondata di protesta che preoccupò non poco l’AKP — Erdogan incolpò Twitter, Facebook e Youtube come i vettori del disordine. Il 2 giugno di quell’anno si disse certo che «i social sono dei gravissimi pericoli per il nostro popolo, Twitter è pieno di menzogne».
Fu l’inizio di un’offensiva politica, giuridica e poliziesca verso chiunque utilizzasse le diverse (e allora ancora libere perciò incontrollabili) piattaforme. Il 26 novembre 2020 il presidente fu ancora più netto; partecipando ad un forum sulla comunicazione Erdogan concluse il convegno scandendo con forza le seguenti parole: «una numerazione che riduce l’individuo a un nome o un numero non può che sfociare nel fascismo. Noi dobbiamo opporci a questo fascismo numerico». Insomma, gratta, gratta anche sul Bosforo lo spettro di un presunto “fascismo” immaginario, numerico o meno, torna sempre utile per tappare bocche e spaventare intelligenze.