A meno di un mese dal primo turno elezioni presidenziali e legislative — si vota il 14 maggio prossimo — il panorama politico turco s’incupisce sempre più. Per la prima volta dopo vent’anni il potere di Recep Tayyip Erdogan sembra traballare e i sondaggi, per quanto addomesticati, lo danno costantemente dietro al rivale Kemal Kiliçdaroglu e alla sua “tavola dei sei”, tanti sono i partiti della multicolore coalizione d’opposizione. A fare la differenza questa volta è la pessima gestione del terremoto dello scorso 6 febbraio che si somma allo scatenarsi dell’inflazione che ha divorato il potere d’acquisto delle famiglie, il disastro della super svalutata lira turca e la crescita esponenziale dei disoccupati: 8,9 milioni di persone, ovvero il 23,4 per cento della popolazione attiva. Numeri pesantissimi certificati dall’Istituto turco di statistica (l’TIUK), ovvero da una fonte vicino al governo. La realtà, sostengono gli oppositori, è ben peggiore.
Erdogan è però un osso duro. Nonostante le proiezioni negative il sultano tiene la scena abbondando in promesse e minacce. Iniziamo con le prime: dopo aver assunto a tempo pieno mezzo milione di precari nell’amministrazione pubblica, il presidente promette ora l’abbassamento dell’età pensionabile, la rivalutazione dei salari minimi, un piano di edilizia popolare, la drastica riduzione delle fatture di luce e gas e altre mirabilie
Per chi si ostina a contraddirlo vi è la mano pesante. A Mahir Akkoyun, un giovane grafico d’Izmir reo d’aver disegnato una caricatura di Erdogan, divenuta subito virale sui social, i giudici hanno bruscamente ricordato che per il blasfemo dileggio della figura presidenziale la pena potrebbe ammontare a quattro anni di galera. A buon intenditor…
Dove non arriva la magistratura — dal fallito golpe del 2016 epurata e allineata al potere — vi sono poi gli uomini di mano. Nelle ultime settimane le sedi dei principali partiti della coalizione di Kiliçdaroglu vengono regolarmente attaccati, crivellati a colpi di mitra o incendiati. Per il momento (fortunatamente) non vi sono vittime ma anche (ed è bizzarro) nessun arresto e nessun colpevole.
Ma la partita più pesante Erdogan la sta giocando sul confine meridionale con l’Iraq. Con la scusa della caccia ai terroristi curdi del PKK, il movimento guidato da Abdullah Ocalan, dal 1999 richiuso in una prigione istanbuliota, l’esercito di Ankara ha massicciamente intensificato la sua presenza nel sud del paese e valicato in forze i confini nazionali per entrare nel Kurdistan iracheno, dalla caduta di Saddam Hussein regione autonoma.
Approfittando della debolezza del governo di Baghdad e delle divisioni politiche all’interno della locale comunità curda — frammentata tra i rissosi terminali politici del clan Barzani e del clan Talabani ma, per più motivi, tutti ostili al PKK —, il governo turco ha prima avvolto il confine meridionale estendendo una fascia di sicurezza in territorio iracheno profonda trenta chilometri —una piena espropriazione della sovranità di Baghdad…— e ora si è allungato sull’intera aerea. I turchi hanno esteso le loro installazioni militari in quasi tutto il Kurdistan settentrionale installando 87 basi — veri e propri fortini —; mentre nel cielo volano continuamente i droni Bayrktar Tb2, congegni che hanno dimostrato la loro micidiale efficacia in Ucraina, sul terreno agiscono le forze speciali utilizzando ogni mezzo, comprese proibitissime le armi chimiche. Un segreto di stato che è costato al professore Sebnem Kour Fincasi, presidente dell’Unione dei medici turchi, una condanna a due anni e otto mesi di prigione solo per aver chiesto un’inchiesta sull’impiego di bombe non convenzionali sulla (e sotto) la frontiera. A farne le spese, oltre ai militanti del PKK, la popolazione civile. Povera gente che cerca di sopravvivere a guerre e faide in una natura aspra e ingenerosa.
L’obiettivo di Erdogan è schiacciare definitivamente i separatisti curdi, causa ampiamente condivisa dall’opinione pubblica turca e quindi utile per recuperare consensi interni. Ma in prospettiva vi è, come paventano gli osservatori più attenti, la ridiscussione dei confini fissati esattamente un secolo fa a Sèvres, un trattato che decretò, su volontà delle potenze occidentali, il funerale dell’impero ottomano e fissò le attuali frontiere della Turchia repubblicana. Un’umiliazione che i turchi da allora mal sopportano e non digeriscono. Da qui le domande. E se Erdogan, una volta (forse) rieletto, decidesse di allargare, magari in maniera informale, la morsa turca sull’Iraq settentrionale, riprendo l’antica provincia ottomana di Moussul? Sarebbe una forzatura che sconvolgerebbe, una volta di più, i fragilissimi equilibri del Vicino Oriente, innescando un effetto domino dalle conseguenze imprevedibili.
Di certo l’attivismo turco nell’Iraq settentrionale allarma Baghdad, preoccupa i vicini (Siria e Iran) e infastidisce gli americani, per nulla entusiasti di una nuova crisi in un quadrante strategico. Non quindi è un caso che Jeffe Flake, l’ambasciatore statunitense ad Ankara, abbia voluto incontrare pubblicamente Kemal Kiliçdaroglu. Uno sgarbo di Biden ad Erdogan, una minaccia o un avviso di sfratto? Vedremo.