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“Un giorno di pioggia a New York”: l’ennesimo spento film di Woody Allen

di Tommaso de Brabant
24 Febbraio 2021
in Multimedia
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“Un giorno di pioggia a New York”: l’ennesimo spento film di Woody Allen
       

Gatsby, rachitico studente universitario e giocatore di poker, accompagna la fidanzata Ashleigh a New York: lei deve intervistare un regista, lui spera di trascorrere il fine settimana a zonzo per Central Park con la sua bella. La ragazza però rimbalza dalle crisi del regista a quelle del suo sceneggiatore; così Gatsby ritrova Shannon, sorella d’una sua precedente fiamma.

Ennesima conferma della perdurante crisi di Woody Allen. Anche Clint Eastwood ha pagata cara la convinzione di dover girare un film ogni anno: ma dopo il mesto decennio 2009-’18 (dal pessimo “Invictus” all’appena simpatico “Attacco al treno”) si è dato una svegliata, ha riordinato le idee ed è tornato alla riscossa col meraviglioso “Il corriere” e l’ottimo “Richard Jewell”. Woody Allen no, sguazza nella sua stessa crisi. Il suo ultimo grande film risale al 2013, “Blue Jasmine”: una tragedia, con la quale si era rifatto da una serie di commedie discrete (“Scoop”, 2006; “Midnight In Paris”, 2011) o bruttissime (“Basta che funzioni”, 2009; “To Rome With Love”, 2011), intervallate da un dramma mediocre nonostante il cast imponente (“Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni”, 2010). Invece di riflettere sui risultati, Allen ha preferito accantonare i toni tragici e proseguire con le solite commedie in tono minore: se “Magic in the Moonlight” (2014) era carino (ma funzionava soltanto in virtù del duetto Emma Stone & Colin Firth), il resto era peggio che trascurabile: e gli attori a disposizione non aiutano (davvero terrificanti i cast di “Café Society” e “La ruota delle meraviglie”, 2016 e ’17).

Lasciato trascorrere almeno il 2018 senza colpo ferire, il clarinettista di Manhattan ha così radunato un altro gruppetto di attori delle nuove generazioni per l’orrendo “A Rainy Day In New York” (2019).

Che il protagonista maschile sia più esile delle due ragazze che lo affiancano (e la Fanning è filiforme), dà la misura di quanto sia malridotto il maschio occidentale 2.0; a parte ciò, i nomi in cartellone – e le loro prestazioni – rendono l’idea di quanto poco offra la Hollywood di oggi. L’attrice migliore del cast, la bellissima Rebecca Hall, compare in una sola scena (e pure scialba: il banale battibecco con Law): e non è hollywoodiana (ma londinese).

Nel film non succede nulla: è l’ennesima sfilata di personaggi dell’alta società newyorchese, in quasi novant’anni di vita Allen non ha ancora capito che al mondo non esistono solo i ricchi di Manhattan e i ricchi di Londra. Il Gatsby “interpretato” dall’inamovibile Timothée Chalamet è l’ennesima macchietta alleniana: coltissimo ma imbecille, pieno di tic, fisicamente fragile, attratto dalle bellezze artistiche ma volgare, prodigo di battute ma antipatico. Attorno a lui, i soliti personaggi caratterizzati male: la ciarliera fidanzata un po’ ingenua e un po’ zoccola (Ashleigh – Elle Fanning), la rampolla di buona famiglia che non fa un tubo tutto il giorno ma sembra sapere tutto della vita (Shannon – Selena Gomez), un regista in crisi profonda (l’ex marito di Naomi Watts), uno sceneggiatore che pedina la moglie (il sempre esagitato Jude Law). La sceneggiatura è il solito parlottio, le battute sempre le stesse: quella sul sesso orale come regalo di bar mitzvah sembra le parolacce che i bambini dicono sperando che qualche adulto si scandalizzi. Il solito cinismo alleniano. Fotografia, come nei due precedenti film di Allen e in quello di prossima uscita, di Vittorio Storaro.

Il prossimo sarà “Rifkin’s Festival”, d’ambientazione spagnola, con due veterani yiddish (Wallace Shawn, noto per “La storia fantastica”, e Steve Guttenberg, protagonista della serie “Scuola di polizia”), Christoph Waltz nel ruolo della Morte, Gina Gershon e Louis Garrel: dopo Chalamet, un altro esangue spaventapasseri che nasconde il volto inespressivo sotto la zazzera. Ma Chalamet, in confronto a Garrel, sembra Marlon Brando.

Poteva mancare la crisi isterica del movimento “Me Too”? No, in qualche modo questo branco di nullafacenti deve riempire le giornate. Così come a Polanski si rinfaccia una colpa di mezzo secolo fa, la cui vittima lo ha perdonato, e la premiazione del suo ultimo film fa da palcoscenico ai rutti di un’attricetta istigata da una regista invidiosa; così la notizia d’un imminente film di Allen ha scatenato le erinni del rancore politicamente corretto. I vigliacchi di Amazon (con i quali Allen aveva un contratto per la distribuzione di quattro film), temendo un danno d’immagine (pensano di avere una buona reputazione?) si sono smarcati da Allen, abbandonando la produzione: il regista li ha portati in tribunale, ottenendo che gli fossero restituiti i diritti sugli incassi negli USA. Selena Gomez e Rebecca Hall hanno donato il loro salario a Time’s Up, associazione che sostiene le attrici vittime di molestie. Chalamet ha diviso la donazione tra Time’s Up e la comunità LGBT: un po’ come gettare monete nel forziere di Creso. Ma le priorità di Hollywood sono queste. Non più attori, ma burattini.

Tags: cinemaWoody Allen
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