Viviamo in un mondo di orsacchiotti, basta mettersi una pezza di peluche addosso, e qualsiasi belva sembra Winnie the Pooh. Mi è arrivata, mesi fa, una richiesta di “amicizia” su Facebook. Si trattava d’un compagno della scuola media, la cui immagine profilo era decorata da un motto in favore del disegno di legge Zan. Alla vigilia del Duemila, un nostro compagno di classe portò a scuola il calendario di Sabrina Ferilli; nulla di male, uno sfogo ormonale tra preadolescenti, reso ancor più avvincente dalla clandestinità – l’artefatto andava pur celato al corpo docente; però, in preda a uno snobismo un po’ stupido (detestavo gli altri maschietti della classe, che essendo in forte minoranza numerica si corazzavano dietro sfoggi di “virilità”), manifestai la mia contrarietà al gesto e il mio disdegno per il calendario. Ciò acuì l’antipatia reciproca e soprattutto mi fece appiccicare addosso l’etichetta di “frocio”. Accadeva vent’anni abbondanti fa, le multinazionali non avevano ancora individuato nei gay un settore di mercato da ampliare; dell’omofobia non fregava niente quasi a nessuno, non era di moda essere “gay-friendly”, e se un ragazzino brufoloso e saccente (a onta di risultati scolastici vergognosi) era emarginato a scuola, erano solo affari suoi.
Così il nostro paladino del ddl Zan non aveva alcuna remora a chiamare “culattone di merda” il vicino di banco: adesso non conviene più, così si è messo addosso un drappo arcobaleno. Cambiare opinione è legittimo, farlo in base alle mode è stupido: sempre che si tratti di opinioni propri, e non di atteggiamenti indotti. Il peggio però è pretendere di passare per “buono”, oggi, da “gay-friendly”, additando come “cattivo” un atteggiamento che si ha attuato per anni. Cambiare idea sull’omosessualità e sull’omofobia sta bene, spacciarsi per “buono” dopo aver fatto il “cattivo” per anni significa essere un sepolcro imbiancato.
Il metodo ormai ha preso piede: dichiararsi “buoni”. A priori: mettersi la pezza di peluche addosso, e trasformarsi in tenero orsacchiotto. Essere buoni, è un dettaglio: trascurabile, anzi evitabile. Una scrittrice può non avere alcuna remora, nel ripetere in continuazione che lei è “buona”, eppure riempire un tomo di quattrocento pagine infamando il nonno che non può più rispondere: tutto questo in nome della lotta alla “cattiveria”, incarnata da lui: anche questa ricerca spasmodica d’un nemico è una caratteristica dei sedicenti buoni, che per essere tali devono trovare qualcuno da odiare. Hanno così buon gioco, i mercenari dell’immigrazione, a reclamizzare il loro commercio: loro, che istigano masse di disperati a imbarcarsi su mezzi di fortuna col rischio di sparire tra i flutti, sono “buoni”; chi preferirebbe scongiurare questa tratta di carne umana è “cattivo”. La mangiatoia dei centri antiviolenza che spargono misandria è “buona”; i disgraziati mandati in rovina con false accuse di vessazioni e magari spinti al suicidio da ex consorti rancorose sono “cattivi”. I sostenitori della legalizzazione della droga, smaniosi di lucrare mandando in pappa la salute mentale di migliaia di ragazzini, sono “buoni” (e bugiardi, dato che “togliere un guadagno alle mafie” è una menzogna cui possono credere soltanto gli adulatori di Saviano); i proibizionisti, che in ciò vedono la rovina di una (e forse più) generazioni sono “cattivi”.
Ai Weiwei, artista pessimo, le cui installazioni sono adorate da chi va in brodo di giuggiole per le marchette Catellan, della Abramovic, o peggio ancora di Bansky (che, non lo ripeteremo mai abbastanza, non è un artista in incognito, ma un marchio a uso e consumo di semplici acquirenti, non fruitori d’arte), intervistato riguardo l’osceno trattamento riservato dal sindaco di Milano, Beppe Sala, al direttore d’orchestra Valery Gergiev (cacciato, assieme alla cantante lirica Anna Netrebko, dalla Scala per non aver ripudiato la Russia di Putin: ai pacifisti milanesi sfugge che Gergiev e la Netrebko hanno parenti e amici in Russia, e che la presa di distanza – richiesta con atteggiamento mafioso – dal regime di Mosca li avrebbe messi in pericolo), Weiwei, idolatrato dai “liberali” occidentali perché dissidente inviso al governo cinese (c’è persino chi lo venera per le opere d’arte, ma si tratta di una posa da studentelli del DAMS che vivono nella patria di Mantegna e Tiepolo ma vanno solo alle mostre d’arte contemporanea perché sono I-M-B-E-C-I-L-L-I), ha risposto: Gergiev deve rinnegare Putin, altrimenti taccia. Ma Bruto è uomo d’onore, e Weiwei è “buono”: un orsacchiotto. La sua dissidenza va bene, perché l’ha detto lui, perché l’ha detto il politicamente corretto; la dissidenza (sempre che tale sia) di Gergiev è “cattiva”.

Alla pezza di peluche, all’autocertificazione aprioristica di “bontà” si accompagna il culto della semplificazione. Che è una gran cosa nella quotidianità concreta, ma non quando si tratta di grandi questioni: dai massimi sistemi alle vicende internazionali. Ogni sistema ha il suo linguaggio, e quello della politica è complesso. Non fosse che alcuni hanno il preciso interesse a semplificare i discorsi complessi: se così ci si ostina a complicare le stupidaggini (dalla moltiplicazione artefatta degli orientamenti sessuali, alle sofisticherie culinarie dei programmi trash), per contro si banalizzano le vicende serie. Le conseguenze perniciose non mancano: fra tutte, quella più ricercata e l’abbassamento del quoziente intellettivo medio (un dato di fatto negato, guarda un po’, dalla prima sostenitrice italiana dello “schwa”), che notoriamente fa comodo alle logiche di potere: le quali infatti pilotano iniziative direttamente mirate all’ottenimento di questo istupidimento (dallo sdoganamento della droga alla disinvoltura nella prescrizione di psicofarmaci, dalla diminuzione delle ore di sonno col progressivo attardarsi degli spettacoli televisivi alla capacità di concentrazione distrutta dalle notifiche sullo smartphone, sino alla facilitazione delle attività quotidiane con chimere come Alexa: chiedere a un robottino di fare le cose al proprio posto impigrisce e soprattutto rincoglionisce).
La semplificazione dei discorsi complessi è uno strumento del discorso dominante. Lo abbiamo visto con il Covid: il discorso ufficiale tacciava di negazionismo qualsiasi perplessità, e il discorso dissidente squalificava come “covidiota” ogni esitazione. Nell’autunno del 2021, i DPCM imponevano l’obbligo di green pass per salire sui treni a lunga percorrenza – sui quali, essendo i posti contati, non si sta l’uno addosso all’altro; ma non per i mezzi pubblici – sui quali, in alcuni orari, ci si accalca. Una chiara assurdità: era obbligatorio essere vaccinati per salire su treni in cui il rischio di contagio è azzerato dalla distanza, ma non per andare su mezzi nei quali spesso i passeggeri stanno appiccicati fra loro; eppure, constatare questa assurdità esponeva all’accusa, da parte degli isterici dell’emergenza, di essere negazionisti, complottisti, boccaloni che cascano nelle bufale sparse su internet, untori… per contro, il solo fatto di essere vaccinati attirava il rancore dei no-vax più barricaderi. Nessuno spazio per obiezioni, discussioni, curiosità, perplessità, riflessioni; come in un derby calcistico, o tifi per la Roma o per la Lazio, e come disse il romanista Rascel: il tifo per la squadra non si discute.
Undicesimo: non discutere. Non complicare. Lo ha ribadito e stabilito l’Huffington Post, colonna corazzata del globalismo: chi dice, andreottianamente, che la questione ucraina sia complessa, è un tifoso di Putin. Doppia squalifica: si addita chi riflette su di una grande questione geopolitica come “tifoso”, attribuendogli un proprio vizio; e gli si dà del putiniano, insomma del nemico. Un grottesco servizio del TG4 sugli antivirus per computer è cominciato lanciando un sospetto: gli italiani potrebbero avere “il nemico” nei proprio dispositivi informatici. Non ci sono paesi belligeranti (e schierati dall’una e dall’altra parte), altri paesi non belligeranti, paesi osservatori, paesi variamente coinvolti: o sei schierato coi buoni, o sei putiniano.
La semplificazione aiuta il discorso dominante, e chi lo recita: giornalisti mediocri, opinionisti televisivi, sparasentenze da Facebook hanno così gioco doppiamente facile: la banalizzazione li rende graditi al discorso dominante, e permette loro di calcare la scena. Chiunque sia qualificato è doppiamente un nemico: perché mette in dubbio il discorso dominante, e perché pone in pericolo la supremazia dei semplificatori sulla scena.
Sono così chiare le ragioni del volgare attacco d’uno dei più convinti corifei della bontà autocertificata al professor Alessandro Orsini, che pur con tutti i distinguo che antepone alle sue argomentazioni è ormai considerato un putiniano, quindi un cattivo. “Il caffè” di Gramellini, sul Corriere della Sera dell’altro giovedì, è cominciato con un surreale “il bravissimo Formigli” (il conduttore di La7 stava ospitando Orsini) ed è proseguito con un non molto più serio accostamento fra Dugin e Rasputin: secondo Gramellini, burattinai l’uno di Putin e l’altro dello zar Nicola II, nonostante la definizione di Dugin “ideologo di Putin” sia una pretesa del filosofo stesso che non trova riscontro nella realtà, così come l’influenza del “monaco pazzo” Rasputin è una nota leggenda. Nonostante l’esagerazione delle qualità di Formigli seguite da due sciocchezze, Gramellini ha preteso di condannare Orsini, del quale ha deprecato il “tono assertivo”: che pure è la modalità con cui Gramellini sentenzia i suoi slogan.
Orsini non asserisce: Orsini argomenta, Orsini spiega. C’è un abisso, un divario tra le spiegazioni dettagliate proposte da Orsini della crisi russo-ucraina, e le semplificazioni da bigino di Gramellini (“Dugin ideologo di Putin”, “Rasputin manovratore dello zar”). Eppure il corsivo di Gramellini, una condanna di chi invece di inveire contro “Putin dittatore pazzo” riflette su quel che succede nel mondo circostante (non proprio un esercizio velleitario), in linea con Fabrizio Roncone sul Corriere e Paolo Guzzanti ospite del TG4 che deplorano i parlamentari italiani “dissidenti”, muove da due pretese: che lo slogan, il tifo becero, la semplificazione, la banalizzazione, il riduzionismo abbiano il pieno controllo del dibattito (con direzione univoca, assecondando il discorso dominante); e che alla spiegazione, all’argomentazione, alla riflessione siano tolti dignità intellettuale e diritto di cittadinanza nell’agone pubblico.

“Il caffè”, la rubrica dell’ex genero di Stefano Rodotà che campeggia sulle prime pagine del Corrierone, è da che esiste un micidiale concentrato di banalità e stucchevolezze, per lo più ruotanti attorno a due paradigmi: il mondo è diviso in “buoni” e “cattivi”; gli uni sono rappresentati dall’autore del “Caffè”, gli altri da Salvini. Una volta beniamino della destra più facilona, chiassosa e sciatta, l’ex ministro degli Interni (a sua volta, un rinomato banalizzatore) è poi diventato l’idolo dei semplificatori politicamente corretti: grazie al “capitano”, è tanto facile liquidare qualsiasi polemica. Se non accetti in toto l’agenda globalista, sei cattivo e quindi salviniano, sei di destra e quindi salviniano, sei fascista e quindi salviniano. Sorvolando sul fatto che Salvini è ormai un esponente politico marginale (la sua presenza al terzo matrimonio, finto, di Berlusconi ne ha ribadito l’addomesticamento), quindi se davvero ci fosse un fronte dei “cattivi”, è quantomeno improbabile che lui ne sia la guida; come sul fatto che la Lega di Salvini si è senz’altro spostata a destra rispetto alla Lega Nord di Bossi e Maroni, ma confondere i suoi impulsi reazionari con “essere di destra” è grossolano e fuorviante; come sul fatto che il fascismo è salviniano, né Salvini è fascista, e che far coincidere leghismo e fascismo è una dimostrazione d’analfabetismo politico (oltre che di disonestà intellettuale, e di pura e semplice idiozia).
Dicevo a mia madre, visitando la mostra su Pier Paolo Pasolini (“Non mi lascio commuovere dalle fotografie”): mette malinconia, pensare a chi fossero gli intellettuali di mezzo secolo fa, e chi sono oggi.
Con buona pace dell’Huffington Post, la politica è una cosa seria e, per di più, complessa. La politica internazionale lo è anche di più, e la crisi russo-ucraina ne è uno degli episodi più tragici, seri e complessi. Viviamo in un mondo di orsacchiotti, che all’indomani dell’attacco russo all’Ucraina hanno riversato il Corriere della Sera di banalità: la rubrica di Aldo Cazzullo ha così ospitato le letterine di tanti Winnie the Pooh in sedicesimo, da chi paventava che “certe cose nel 2022 non possono succedere” (un razzismo storiografico stupido, e infatti derivato dal progressismo – la convinzione che andando avanti nel tempo il mondo migliori per il semplice fatto di procedere – accompagnato a una forma di vigliaccheria: capiti in qualsiasi momento, ma non mentre vivo io, devo stare tranquillo), a oligofrenici convinti che “dopo la Seconda Guerra Mondiale l’Europa è stata in pace” (gente quindi che ha dormito durante tutta la guerra in Jugoslavia, ed è tornata in fase rem quando la Nato ha bombardato Belgrado; tralasciando i conflitti a bassa intensità – Irlanda, Paesi Baschi, Cipro – e le guerre combattute altrove ma comunque con la partecipazione di nazioni europee – Falkland, Iraq parte I e II, Libano, occupazione dell’Afghanistan…), sino a chi deplorava le smanie di “Putin il dittatore pazzo”, riducendo (banalizzando, semplificando) tutto alla psicopatologia (e sul ricorso all’accusa di follia sarebbe da scrivere un compendio) d’un criminale assetato di potere, immaginandoselo magari come i cattivi Disney che ridono stentoreamente mentre pianificano di conquistare il mondo.
Forse sarebbe bello (giusto un po’ tedioso) vivere un mondo di orsacchiotti. Per prima cosa, bisognerebbe riconoscere chi è davvero un tenero Winnie, e chi invece si è coperto di pezze. Sia come sia, Christopher Robin è un pazzo furioso, e gli orsi di peluche non parlano: attenzione quindi agli orsacchiotti. Oppure, a proposito di etologia, non si facciano sempre i lupi mansueti, e si stia in guardia dalle pecore feroci. Perché, ritrovando una poesia (“Olmo”) di Sylvia Plath che abbiamo già citato: queste sono le colpe, isolate e lente, che uccidono e uccidono e uccidono.