Come in questo stesso anno, nel 1993 il 17 dicembre cadde di venerdì. La Prima Repubblica era nella sua fase terminale: ma lo era anche Tangentopoli, l’evento che ad essa avrebbe di lì a poco posto fine. Il magistrato più noto del “pool di Mani Pulite”, Antonio Di Pietro, aveva da poco avuto l’alzata di capo di ottenere la diretta televisiva, su scala nazionale, delle udienze del processo Enimont: l’intenzione dichiarata era di spingere i politici corrotti a rassegnarsi di fronte alla piena evidenza del processo che li stava travolgendo; quella reale e fin troppo ovvia era di coronare il proprio divismo. Antonio Di Pietro, anche più dei colleghi Gerardo D’Ambrosio, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, era dall’anno precedente un divo popolare, un supereroe che si era fatto carico di salvare l’Italia e gli italiani dalle prevaricazioni dei potenti maneggioni: sfruttando la coincidenza dell’uscita d’un film poliziesco-fantascientifico di successo (e non proprio bellissimo), ci fu chi lo soprannominò “il Robocop contadino”.
Avevo sei anni e mezzo: di “Robocop” mi fu permessa la visione di qualche minuto durante il primo passaggio televisivo (era stato da poco introdotto il “bollino rosso”), di Mani Pulite ebbi più contezza: dall’insistenza dei telegiornali sul tema (con mio scorno, speravo di vedere più servizi sul Milan), ai giornali che sfogliavo col nonno. Anche a scuola se ne ebbe qualche riflesso: un compagno delle elementari di nome Antonio fu ribattezzato “Tonino”, proprio come Di Pietro; per non dire di che festa fosse, per noi bambini, che un leader politico recentemente affermato si prodigasse, sulle reti televisive nazionali, in parolacce e gestacci: a ripensarci, una generazione cresciuta con Umberto Bossi, e quindi considerando legittimo che un politico importante avesse un tale atteggiamento, è stato un danno educativo e istituzionale non da poco.
Bossi e Di Pietro hanno tanto in comune. Sono diventati superstar quasi contemporaneamente, hanno partecipato alla distruzione della Prima Repubblica e al varo della Seconda, sono stati coinvolti in Tangentopoli e nel Processo Enimont: con ruoli diversi, perché pur avendo, anche successivamente, rinfacciato a Berlusconi e sodali la vicinanza con Craxi e, di conseguenza, il “peccato originale” di Mani Pulite, da quel processo Bossi non uscì pulito. Si tratta pur sempre dello stesso segretario di partito che dopo aver tuonato contro gli ex missini di Alleanza Nazionale non si farà tanti problemi ad allearsi, in nome della comune alleanza con “Berluskaiser”, coi tanto vituperati postfascisti.
Lo stesso atteggiamento “popolano”: entrambi si sono fatti forti d’un operaismo furbastro, utilissimo ad attirarsi le simpatie degli italiani arrabbiati. Se però la vita lavorativa di Bossi è stata completamente campata per aria dallo stesso Senatur (che si è anche attribuito lauree mai conseguite, per essere poi imitato dal figlio), Antonio da Montenero di Bisaccia ha davvero fatto un po’ di tutto, arrivando alla toga dopo un lungo iter di lavori umili, nei campi e nelle fabbriche, maturando con la falce e il martello una consuetudine ignota a moltissimi militanti comunisti. Così i primi leghisti (imprenditori, impiegati, operai, liberi professionisti: insomma gente semplice che si fa il mazzo) poterono vedere in Bossi uno di loro, che parlava il loro stesso linguaggio, capiva le loro esigenze e se ne faceva portavoce nell’odiatissima “Roma ladrona”; d’altro canto, moltissimi italiani (di sinistra e di destra, restando Tonino furbissimo nel non esternare preferenze politiche, salvo poi inoltrarsi in una avventura di centro più che di centrosinistra: più cerchiobottisti di lui, soltanto Pannella e Mentana) individuarono nell’eroe togato una figura anche più limpida. Così, lo scontro tra Di Pietro e i “professionisti della politica” (come saranno idealmente liquidati, poco più avanti, Berlusconi) si tradusse, agli occhi dell’opinione pubblica, nella sfida lanciata da un loro rappresentante ai gatti grassi, ai privilegiati, ai soloni in giacca e cravatta.
Eppure, il 17 dicembre 1993 questo ingranaggio si inceppò. La festa del pool sembrava procedere inarrestabile: nessuno dei testimoni, tanto meno degli inquisiti, poteva far fronte a Super-Tonino. Bossi fu accartocciato, Claudio Martelli e Carlo Sama furono lasciati a sbranarsi a vicenda, ed è sin troppo nota la figura meschina fatta da Arnaldo Forlani, la cui carriera terminò con l’udienza: già co-protagonista del triumvirato CAF (assieme a Craxi e Andreotti, non proprio due improvvisati), l’ex centrocampista della Vis Pesaro fu pubblicamente umiliato, e nell’immaginario collettivo è rimasta di lui soltanto la crisi isterica in preda alla quale affrontò l’interrogatorio. Poi, qualcosa cambiò.
Pur temendo che il suo maggiore avversario avrebbe profittato dell’occasione per squadernare pubblicamente il “poker d’assi” in serbo contro di lui (ossia: quattro documenti che avrebbero gravemente ridimensionato l’immagine del Robocop molisano), Di Pietro interrogò, in diretta televisiva e in un’aula affollata da giornalisti, pubblico, testimoni, imputati e avvocati, Bettino Craxi: il “Cinghialone” che il pool di Mani Pulite intendeva impallinare, a coronamento della battuta di caccia di Tangentopoli. L’ex premier non lo fece: aveva già commesso dei gravissimi errori di comunicazione (definire Mario Chiesa un “mariuolo”, scaricandolo durante un’intervista al TG3 e attirandosi così il suo fatale rancore; firmare corsivi Di Pietro, tra i quali appunto quello in cui avvisava i lettori che “non è tutto oro quel che luccica”, e paventando l’uso di ciò che il sempre acutissimo Rino Formica definì appunto “poker d’assi”, giustificando però così l’accusa di intimidazione). Realizzò allora il suo capolavoro, per l’appunto, di comunicazione. Non era più il Craxi dei mega-congressi, che si permetteva di spernacchiare Sua Santità Berlinguer; il Craxi che teneva testa a Reagan e alla Delta Force a Sigonella, che proclamava l’Italia quinta potenza industriale a discapito della Gran Bretagna della Thatcher (sogghignando alle di lei spalle: anche privatamente i due si detestavano): era invece il Craxi che aveva visto distrutte le sue ambizioni politiche (era giunto a sperare nel Quirinale), che era stato raggiunto dagli avvisi di garanzia, e che otto mesi prima, nelle forche caudine di Largo Febo, era stato ricoperto di monetine, accendini, sputi e cori irridenti. A un primo sguardo, lo si poteva notare: era imbolsito dallo stress (a dispetto delle vignette di Forattini e Disegni, non era mai stato grasso), e gli occhi, già a mandorla per la miopia, erano socchiusi per la stanchezza. Soprattutto, era in condizione di svantaggio: Di Pietro era il pubblico ministero del processo, Craxi era testimone e inquisito.
Eppure, il vincitore (indiscusso: con grande scorno, lo riconobbero tifosi del pool e giornalisti da sempre ostili a Craxi, tanto che Eugenio Scalfari rischiò, per la sua reazione al solito livorosa, una querela da parte di Tonino) fu Craxi: e lo fu proprio per i motivi su cui puntava Di Pietro. No, il “dipietrese”, il linguaggio del PM più venerato dagli italiani, non funzionò: anzi, si trasformò in una debolezza. Il continuo ripetere “che c’azzecca?” accompagnato dalle mani a gruccia, i farfugliamenti, la foga, l’accento marcato, la voce sgraziata non erano più simpatici, ma patetici: e i tempi verbali sbagliati in modi sempre più fantasiosi non erano più un segno di umanità, di umiltà, una coloritura che lo rendeva più vicino al popolo: ma un difetto grave, brutto, deprecabile. Invece Craxi non era più un emblema del vizio, un totem della “Milano da bere” arraffona, un privilegiato al quale accollare le colpe della caduta della lira e dell’inflazione galoppante: era tornato di colpo un guerriero, una figura solida e forte (complice anche l’imponenza fisica: pur stando seduto, era notevolmente l’uomo più grosso di tutta la sala), un politico fuoriclasse, un asso. L’intelligenza, il carisma, l’energia che nemmeno gli avversari peggiori potevano fare a meno di riconoscergli, erano offerti al pubblico.

La voce stentorea (priva dell’ansimo, segno di quanto il suo cuore fosse ormai danneggiato dal diabete, che aveva scandito il tragico discorso alla Camera del 3 luglio 1992: quello durante il quale, invitando gli altri segretari di un partito a un giuramento – accolto da un imbarazzato silenzio – proclamò: “ciò che bisogna dire e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale”), la gestualità elegante (un seguace la definì “da violoncellista”), l’atteggiamento sicuro (addirittura arrogante), il coraggio delle dichiarazioni (non ebbe la minima remora nel tirare in ballo le colpe del PCI, che pur essendo gravemente coinvolto nel traffico di tangenti uscì indenne dall’inchiesta, per il semplice fatto che la manovrò: e Craxi lo sapeva, così come sapeva cosa si sarebbe attirato addosso con tali proclami): in televisione (lo stesso mezzo con il quale, da oltre un anno, il pool di Mani Pulite consegnava in pasto alla folla nomi e volti dei capri espiatori cui imputare il debito pubblico), la stessa opinione pubblica che aveva trovato in Di Pietro il proprio salvatore e in Craxi il despota rovesciato da odiare, vide Di Pietro affannato, imbarazzato, intimorito di fronte a un Craxi che dopo un anno abbondante trascorso a incassare pestoni (e lutti) era ancora forte e sorridente. Nell’immaginario collettivo restarono una frase: Craxi che dice di essere “sempre stato al corrente della natura non regolare dei finanziamenti ai partiti e al mio partito… ho cominciato a capirlo quando portavo i pantaloni alla zuava”, e un’immagine: Di Pietro che porta a Craxi (restato nel frattempo immobile) un foglio, per chiedergli di riconoscere la grafia di Vincenzo Balzamo; e lo stesso Di Pietro che torna da Craxi (che nel frattempo non ha nemmeno lontanamente contemplato l’eventualità di scomodarsi) per farsi restituire il foglio. Qualcuno paragonerà Di Pietro a un cameriere, altri a un cane da pastore.
Questo excursus per dire cosa? Ho citato la mia infanzia, passiamo alla mia adolescenza. Chissenefrega, dirà il lettore, al quale chiedo ancora un poco di pazienza (se sopporta me e i miei articoli, lo immagino paziente come un frate certosino). Sono cresciuto con fissazioni operaiste, pauperiste: cretinate mortificatorie, manie d’espiazione. Scemenze che m’hanno fatto perdere tempo: quando ho cominciato l’università mi sono impegnato più a cercare lavori temporanei in fabbrica, che non a preparare gli esami, tutto perché dovevo avere quell’esperienza (che per carità è formativa), i calli sulle mani (ahimé, il sindacato mi obbligava a mettere i guanti per evitare infortuni), irrobustirmi e balle varie. Poi mi sono reso conto, crescendo in grave ritardo, che la mia vita poteva (forse addirittura doveva) essere altro. Ora che ho passato i trent’anni, nonostante tanti strascichi (ho ancora il complesso d’inferiorità nei confronti di muratori, fabbri, marmisti, operai stradali…), l’idea di vivere comodamente (è la prima volta da quando sono maggiorenne che enuncio questa parola) mi attira, lo ammetto.
Lo scorso febbraio, guardando con mia madre quello che sarebbe subito diventato un nostro “cult”, la commedia italiana “Come un gatto in tangenziale”, mi sono trattenuto a stento dallo scattare in piedi e applaudire vigorosamente, quando Giovanni, l’intellettuale “radical chic” interpretato dall’ottimo Antonio Albanese, ai borgatari che ripetono le solite banalità su quanto siano cattivi i colletti bianchi e quanto siano in gamba i poveretti, ribatte “basta con questa retorica delle mani sporche” (scusa sia di chi non ha avuto possibilità, e allora ci mancherebbe; ma anche di chi non ha mai voluto migliorare niente, tanto meno se stesso).
E dopo questo altro excursus in manie dello scrivente e cenni dal suo immaginario, siamo davvero al punto. Il 17 dicembre 1993, nei fatti, non ha cambiato molto: il processo (giudiziario, politico e storico) non si fermò, né modifico la sua andatura. La Prima Repubblica fu sepolta, i partiti coinvolti furono smantellati (persino il PCI, coinvolto ma esentato da conseguenze penali, si trasformò nel Partito Democratico di Sinistra: il “pettirosso da combattimento” già oggetto del profetico sarcasmo di De André, prima di tante metamorfosi che hanno portato all’attuale Partito Democratico, eloquentemente privato della dicitura “di Sinistra”), gli inquisiti furono condannati, Craxi andò in esilio ad Hammamet, per lasciarsi stroncare dal diabete e dalla rabbia. Ma il 17 dicembre 1993 resta una tappa importante, perché ha lasciato un segnale: il “dipietrese”, la “retorica dalle mani sporche”, il qualunquismo, l’antipolitica non portano a nulla.
O almeno, a nulla di buono: lo vediamo tanto più dopo le prime esperienze del Movimento Cinque Stelle al governo, tra portavoce provenienti da “reality show”, ministri incompetenti accompagnati da sottosegretari che non sanno distinguere la Libia dal Libano, macchiette (i “nani e ballerini” paventati dal saggio Formica), abomini come il “reddito di cittadinanza” (cui ha fatto seguito il loro alleato peggiore, con la proposta della Quota 18, non tanto in favore degli adolescenti quanto in odio ai benestanti), attacchi alla meritocrazia (già invisa ai sessantottini, a proposito di movimenti fatti su misura per i cretini), tutto riassunto nel motto: “uno vale uno”.
No signori, uno non vale uno. Un Di Pietro che, con tutto a proprio favore, si fa mettere in tasca da un avversario ferito, immalinconito e consapevole che la sua carriera politica sta finendo male, non vale un Craxi che pur così malconcio sorride come se non fosse coinvolto in un processo penale, ma se stesse brillando dalla piramide di Panseca durante un congresso trionfale. Il “Robocop contadino” non ha davvero impallinato il “Cinghialone”. La storia non è sicura, diceva il gesuita Michel de Certeau, a onta di chi pretende di scriverla a proprio favore: ma soprattutto, la storia chiede il conto. E la storia è il croupier d’un gioco in cui il tavolo vince sempre: un gioco al cui tavolo possono stare soltanto i bravi pokeristi, non il primo qualunquista che passa – sia un ex poliziotto di Campobasso, o uno studente perdigiorno e mai laureato alla Federico II di Napoli, poco cambia.