In un libro sulla Seconda Guerra Mondiale, abbiamo scritto del generale MacArthur che, costretto dall’avanzata giapponese a ritirare le proprie truppe dalle Filippine, promise alla popolazione locale che sarebbe tornato – e lo fece. Lo scorso 2 novembre il regista bolognese Pupi Avati, girando le prime scene del suo nuovo film nella città natale, colpito da problemi cardiaci si è trovato a dover interrompere le riprese, ma già in ospedale lanciava la stessa promessa: anch’essa mantenuta.
Terminato un breve ricovero, il creatore del “gotico padano” è corso a Cinecittà per girare, tra la fine di novembre e Natale, le scene in interni del suo nuovo dramma, “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” (protagonisti Edwige Fenech, Gabriele Lavia e Massimo Lopez, assieme al conte Alberto Uva e all’esordiente Camilla Cerauli), storia d’amore e amicizia tradita che si svolge lungo un arco di quasi quarant’anni. Andavano però completate le scene in esterni, cominciate il 31 ottobre nell’incantevole scenario di San Michele in Bosco (abbiamo raccontato la prima giornata sul set nell’articolo del 9 novembre “Forza Pupi! Una festa (in-interrotta). La scelta della data era complicata dalla fittissima agenda teatrale di Lavia (impegnato con Dostoevskij e Pirandello nei migliori teatri d’Italia, dal Piccolo di Milano alla Pergola di Firenze), che nel ruolo di Marzio si presenta al funerale del suo amico-rivale per esprimergli il suo perdono, e in tale occasione incontra dopo anni la sua amata.
Lunedì 3 novembre è così partita l’ultima tranche di riprese (dovrebbero terminare sabato 7), tutte d’ambientazione felsinea: la prima giornata, lunghissima, ha visto le due unità della troupe impegnate tra San Michele in Bosco, Porta Lame e i portici.
La mattina, Pupi Avati ha diretto l’uscita del corteo funebre dalla chiesa: la nebbia e una lieve pioggia hanno contribuito all’atmosfera lugubre. Quando la troupe è stata raggiunta dalla Fenech e da Lavia (rispettivamente 74 e 80 anni: a vederli si direbbe molto meno), i fotografi dei giornali locali si sono appostati a fotografare i due attori. Il responsabile delle comparse ha poi chiesto chi fosse disposto a trattenersi sino a tardi: sono state così formate due pattuglie da sei figuranti ciascuna, una assegnata alla scena “anni ‘90” e l’altra a quella “anni ‘70”. I primi, diretti da Pupi stesso, con la prima unità, sono andati in Piazza Santo Stefano; gli altri – fra i quali le sorelle Catalanotti e lo scrivente – si sono invece cimentati, diretti da Mariantonia Avati (che di Pupi è figlia), in tre scene: una, nel negozio del liutaio Sergio Tomassone (amico d’infanzia del regista); le altre due, ormai di notte, tra i celeberrimi portici bolognesi – con tanto di taxi (una Fiat 124 verde bottiglia).

Pupi Avati non sembra capace di fermarsi. Nel 2019, con “Il Signor Diavolo”, è tornato (dopo una lunga fase melò non proprio felicissima) a fare grande cinema dell’orrore (non sembra esagerato accostare quel film ai migliori episodi del peculiarissimo horror avatiano: “La casa dalle finestre che ridono”, “Zeder” e “L’arcano incantatore”); nel 2021 ha inscenato una storia d’amore eterna con “Lei mi parla ancora”; toltosi di torno il capriccio dantesco (bersagliato da recensioni imbarazzate, ma celebrato dalle istituzioni e ricompensato dal botteghino) che lo tormentava da lustri, è tornato nella sua città (superando l’ostilità della stessa – sorvoliamo sullo sgarbo del comune alle esequie di Cavina – e i problemi di salute) per dipingervi un affresco lungo mezzo secolo.
Si vocifera che “L’archivio del Diavolo”, il romanzo sequel di “Il Signor Diavolo”, sia già stato ridotto in forma di sceneggiatura, e che perciò presto – come già l’episodio precedente – diventerà un film. Lo auspichiamo, e attendiamo che un nuovo set sia animato dal leggendario grido avatiano: “Azione!”