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Home Appunti di viaggio

Un’avventura nigeriana

di Eugenio Pasquinucci
24 Gennaio 2015
in Appunti di viaggio, Home
1
Un’avventura nigeriana
       

 

Ai margini della foresta equatoriale la Snamprogetti aveva costruito una grande raffineria, vi lavoravano molti tecnici ed operai italiani, che istruivano maestranze locali. Era stata un’impresa titanica, anche per le numerose difficoltà create dalle condizioni climatiche e logistiche. Una volta piovve per settimane intere, il lavoro era bloccato, finché il capo degli operai nigeriani propose una danza della pioggia al contrario.
I dirigenti italiani erano talmente esasperati che accettarono di chiamare uno stregone locale, la danza ebbe luogo e, incredibilmente, la pioggia cessò.
Nell’agosto di quell’anno , laureato da poco, accettai un incarico di due mesi, come medico del nostro insediamento. La mia giovane età aveva provocato un malcelato sgomento in non pochi dei miei connazionali, però venni ben presto accettato come il “doc”.
Un giorno capitò il fattaccio : via radio venimmo informati che nella città di Benin, a poche centinaia di chilometri di distanza, una banda di rapinatori aveva preso in ostaggio per una notte intera, in un villino, un gruppo di nostri tecnici. Alcuni erano stati picchiati, tutti erano sotto shock.
Decisi di raggiungerli per constatare le loro condizioni di salute, chiamai Joseph, il mio autista di turno, e partimmo in macchina.
Nel lasciare Warri, fiancheggiammo i confini della grande villa del re locale, un semplice capomafia, ma la scritta in stile luna-park sulla cancellata lo definiva “his majesty”.
Imboccammo presto l’unica strada provinciale , fatta da una carreggiata e mezzo di nastro di asfalto.
Quando due auto provenienti da direzioni opposte arrivavano a fronteggiarsi , ognuna doveva scendere con le due ruote laterali sul tratto in terra battuta. Joseph, tutto eccitato e divertito per la missione da compiere, mi spiegò che in Nigeria è più uomo chi per ultimo cede e molla la metà del tratto d’asfalto al veicolo sopraggiungente.
Dovevano esserci molti uomini da quelle parti perché sui lati della strada era tutto un fiorire di carcasse d’auto.
Lo stesso Joseph si rivelò dotato di grande virilità, perché più volte chiusi gli occhi in attesa dello schianto con la vettura sopraggiungente.
Finalmente con mio grande sollievo, arrivammo a Benin e Joseph si fermò dietro ad alcune macchine in sosta ad un semaforo tutto inclinato e traballante, alle soglie della città. Il mio autista mi chiese cosa era quell’aggeggio lì con tre luci, ed io gli spiegai cosa è e a cosa serve un semaforo.
Raggiungemmo presto, con ragguagli via radio, il villino colpito.
Ad accogliermi sulla soglia c’era un anziano medico ex ginecologo italiano che viveva da anni lì. Perché fosse finito da quelle parti preferii non chiarirlo, parlammo subito di cosa era accaduto.
La sera prima un gruppetto di giovani aveva suonato alla porta del villino, il domestico indiano era andato ad aprire e uno dei malviventi gli aveva subito puntato una pistola alla tempia e non gliela aveva più staccata per tutto il tempo della rapina. La banda aveva radunato in salotto tutti gli occupanti la casa , una decina di italiani.
Sotto tiro, i nostri tecnici erano stati malmenati ad uno ad uno.
Poi quello che doveva essere il capo si era avvicinato ad Alessandro, il più giovane dei nostri, gli aveva puntato alla fronte la pistola ed aveva esclamato :”I kill you!”.
Il ragazzo aveva chiuso gli occhi in attesa della fine, non avrebbe neanche fatto a tempo a sentire lo sparo, poi il capo abbassò il braccio cambiando provvidenzialmente idea.
Dopo qualche ora da incubo, razziando tutto il possibile, i rapinatori se ne erano andati lasciando un gruppo di uomini allucinati.
Infatti così li trovai, c’era chi fissava il vuoto con lo sguardo senza mai profferire parola, chi sovraeccitato parlava e parlava, l’indiano in un angolo era una statua di cera.
Io e l’ex ginecologo li medicammo, li riempimmo di tranquillanti, poi organizzai il loro rimpatrio per i giorni successivi.
Si era fatto tardi così cenai in casa del collega che poi mi propose di andare al cinema, l’unico divertimento possibile, proiettavano un western.
Eravamo gli unici bianchi in platea, il film era mediocre, l’unica cosa che mi ricordo era la scena di un assedio ad un ranch : ogni volta che un cow boy veniva ucciso da un pellerossa , la gente scoppiava a ridere, in modo infantile, e non era un film comico.
Tornato a Warri, fui anche blandamente redarguito dal capo missione per aver lasciato scoperta la postazione.
Venni poi a sapere che quella banda o altre simili avevano colpito in altre zone. In un’occasione un bambino tedesco era stato ucciso sotto gli occhi del padre, “ tanto ne farai un altro !”, era stato il raggelante commento del killer.
Un altro italiano si era trovato con una pistola puntata alla fronte, in questo caso il bandito aveva fatto per sparare ma il grilletto si era inceppato. Con la forza della disperazione il nostro connazionale aveva strappato il revolver dalle mani del nigeriano e lo aveva ripetutamente colpito al volto.
Questi eventi sono di tanti anni fa, allora non se ne parlò sui giornali, non si usava.
Oggi la situazione non è cambiata, anzi ora in Nigeria agiscono le formazioni fondamentaliste di Boko Haram.
Dovunque nel mondo ci sono tecnici ed operai italiani che respirano sabbia nel deserto, si lavano col sudore nella giungla, rischiano ogni giorno la vita, qualcuno viene rapito, come il medico siciliano in Libia .
Non possono mimetizzarsi, sono occidentali, non c’è patetica t-shirt con la faccia del Che o scritta di Emergency, non c’è kefiah al collo che possa salvarti se devi essere colpito.
Grazie a loro la nostra economia sopravvive, la nostra immagine nel mondo è decorosa.
Ma in patria legioni di fancazzisti viziati smontano i loro sacrifici.
Non vogliono l’Expo, la Tav, infrastrutture adeguate ai nostri tempi.
C’è perfino un’orchestra che si rifiuta di suonare il primo maggio, giorno d’inaugurazione dell’Expo.
Non mi sembra che i musicisti se la passino bene di questi tempi, ma in una nazione seria dovrebbe essere ritenuto un onore suonare nel giorno in cui tutto il mondo ti guarda, per il proprio paese.
Incartapecoriti nella loro vetusta ideologia sono la zavorra d‘Italia, per ogni coppia di oche pacifiste che si fa rapire c’è un Quattrocchi che ne paga le conseguenze e questo mi fa incazzare.

Tags: AfricaBeninBoko HaramNigeriaSnam
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Commenti 1

  1. FRANCO MARZAROLI says:
    9 anni fa

    Purtroppo é l’amara constatazione che tanti italiani hanno dovuto fare lasciando l’Italia per lavorare all’estero: nella nostra penisola l’ideologia dominante, un misto di cinismo e di tardo pseudo-pacifismo, vanifica il lavoro oscuro di tanti individui, abbandonati se non isolati dall’intramontabile “reseau” italiano di meschinità e mediocrità. Il pesce marcio puzza dalla testa diceva qualcuno…

    Rispondi

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