Appuntamento a Pescara i prossimi 29 e 30 settembre per l’avvio del “cantiere” che ha per obiettivo quello di riaggregare quella “destra diffusa” che, pur riconoscendo in Matteo Salvini il leader naturale di un embrionale polo sovranista, non è intenzionata semplicemente a sciogliersi nella Lega. L’appuntamento di Pescara è stato ufficializzato nel corso dei lavori dell’Assemblea Nazionale del Movimento Nazionale per la Sovranità svoltisi ieri a Roma, appuntamento cui ha preso parte – in veste di ospite – anche Silvano Moffa. Non è mancato un messaggio di saluto da parte di Viviana Beccalossi. Segno evidente di come le rotture consumatesi nelle scorse settimane in seno a Fdi abbiano giocato un ruolo non del tutto marginale nel tentativo di rimettere in moto un processo di aggregazione a destra.
Lo scenario, tuttavia, è più vasto e complesso. E non perde occasione di sottolinearlo Gianni Alemanno nel corso della sua relazione di apertura dei lavori dell’assemblea del Mns: l’obiettivo – nel momento in cui lo scontro è tra “identità contro omologazione” – è quello di costruire un “sovranismo maturo, che non si riduca allo slogan padroni in casa nostra”. E nel tentativo di portare a compimento questo processo potrebbe aprirsi un importante spazio politico per la destra sociale e nazionale, portatrice di un bagaglio culturale – e soprattutto di una capacità di elaborazione culturale – che potrebbe sostanziare, irrobustire e dare stabilità all’ondata di consenso che ora si riversa su Matteo Salvini e sulla Lega. Perché si sa, il consenso “di pancia” duro lo spazio di un mattino: la parabola renziana è lì a testimoniarlo.
Qui, dunque, la validità dell’idea di aprire quelli che – non senza ottimismo – sono stati definiti gli stati generali della destra. Appuntamento importante, ma non privi di rischi. Se è opportuno aprire alla partecipazione di tutti i soggetti della destra diffusa – dal segretario del Mns arriva, esplicito, l’invito a FdI —, d’altro canto appare necessario definire bene il perimetro dei riferimenti valoriali – e perché no, ideologici – entro cui provare a ritrovarsi. E su questo punto appare necessario ancora molto lavoro. Mettere insieme chi vuole più Stato e chi vuole uno Stato meno invasivo – giusto per limitarsi ad un esempio – solo in forza di una – ormai lontana – comune origine appare il modo migliore per destinare questo tentativo di riaggregazione al fallimento. Non si sta insieme per ciò che si è stati, ma per ciò che si vuole essere. Nel segno, però, di una continuità con un’esperienza politica che non nasce certo con Alleanza Nazionale. E anche su questo, sull’esperienza di An, sarebbe opportuna una seria ed approfondita riflessione autocritica: per la pochezza di risultati ottenuti in funzioni di governo, per l’effetto distruttivo sul mondo della destra italiana, non sembra certo quello il modello da cui ripartire.
Da dove ricominciare, dunque? Da una difesa delle identità in grado di conciliare gli ambiti locali con quello nazionale ed europeo (da Brest a Bucarest scriveva qualcuno anni fa, da Brest a Vladivostok potremmo scrivere oggi); dal superamento di una visione liberal-liberista (per quello c’è già il PPE); dalla riscoperta di una socialità che non si riduca a politiche sociali. E l’elenco potrebbe essere più lungo, ma non è questo il luogo.
Infine non si può glissare su un altro aspetto fondamentale: il ricambio generazionale. Non può candidarsi a guidare una nuova destra sociale, nazionale, identitaria chi – in buona o cattiva fede, poco importa – ha portato al disastro quel mondo. E non per sterile ansia di rinnovamento in salsa rottamatrice, bensì perché solo uomini e donne “nuovi” potranno finalmente archiviare la lunga stagione di veleni, risse e divisioni che ha caratterizzato la storia recente della destra italiana.