Incredibilmente assente durante i 45 giorni di guerra che hanno sconvolto il Nagorno Karabakh – salvo qualche sporadica comparsata, rigorosamente a titolo individuale, alle iniziative di piazza promosse dalla comunità armena in Italia e qualche immancabile selfie sui social – la politica italiana a conflitto terminato sembra scoprire un’inedita voglia di protagonismo sul tema. Ecco che una delegazione parlamentare lo scorso fine settimana è la prima rappresentanza politica straniera a visitare i territori “occupati” e “ripresi” dalle truppe azerbaigiane al termine della guerra d’autunno.
Il tour della delegazione inizia dalla regione di Agdham, ritornata sotto la sovranità azera a seguito dell’accordo sul cessate il fuoco raggiunto con la mediazione russa lo scorso 9 novembre. Lo scenario è quello che ci si aspetta da una città rimasta disabitata all’indomani della guerra dei primi anni ’90, teatro allora di feroci combattimenti e rimasta praticamente sulla linea di demarcazione tra armeni ed azeri fino a due settimane fa. Nella narrazione fatta sui social dai protagonisti della visita le condizioni di Agdham – completamente decontestualizzate – diventano però la prova, in una narrazione a senso unico, della ferocia armena.
Il renziano Rosato racconta che i parlamentari italiani nel loro viaggio hanno “trovato città e villaggi saccheggiati e completamente rasi al suolo”, mentre parla di “Gangia” – forse si riferiva a Ganja, con un lapsus che potrebbe trovare spiegazione nelle imminenti festività – come città martire per i “devastanti bombardamenti sui civili” dei mesi scorsi. Per il grillino Gianluca Ferrara le immagini di devastazione raccontano di un popolo, quello azero “che ha sofferto tanto per aver subito un’occupazione illegale condannata dall’Onu”. Non una parola sui bombardamenti subiti dalle città karabakhe e sulle sofferenze dei civili armeni. L’affondo più duro arriva, però, da chi meno te lo aspetti, ovvero da Adolfo Uso, esponente di Fratelli d’Italia, partito che, seppur timidamente, ha espresso un minimo sostegno all’Armenia cristiana sotto attacco in Artsakh da parte dell’Azerbaigian. Perché su un dato non ci sono dubbi: lo scorso 27 settembre ad attaccare sono state le truppe azere, sostenute dalla Turchia.
Nella narrazione di Urso, però, non ci sono incertezze. “Abbiamo attraversato la zona di guerra – si legge in un suo post pubblicato su Facebook -, tre linee di fortificazioni, i campi minati attorno alla strada, desertificati, e siano giunti ad #Agdham, per secoli centro storico e culturale azero, cinquantamila abitanti costretti a fuggire 25 anni fa, ed abbiamo trovato una città rasa al suolo dall’esercito Armeno. Tutte le case abbattute, ad eccezione della Moschea, ridotta a stalla, in segno di oltraggio. Questa, purtroppo, è la verità, dolorosa verità”. E ancora: “Intorno abbiamo attraversato decine di chilometri di campi minati in una terra desertificate che una volta era piena di piantagioni di viti, perché qui gli islamici producevano vino”. Un paesaggio idilliaco in cui mussulmani evidentemente poco osservanti – salvo che l’alcol non sia più proibito dal Corano. O forse sono estremamente tolleranti, tanto da produrre vino? – distrutto dagli invasori armeni. Una visione che, pur condita dall’immancabile richiamo alla necessità di costruire un futuro di pace tra le due comunità, non ha dubbi nell’individuare vittime – gli azeri – e carnefici – gli armeni -. Con buona pace della destra italiana, schieratasi in maniera pressoché totalitaria in sostegno degli armeni dell’Artsakh.
Non è questo il luogo per discutere della legittimità delle pretese di armeni ed azeri sul Nagorno Karabakh. Il richiamo al diritto internazionale – ed alle immancabili risoluzioni dell’Onu – è una foglia di fico, utile a coprire quel che si vuole giustificare per necessità od opportunità politica. Lo dimostra il caso del Kossovo, dove con buona pace del principio di integrità territoriale – evocato ora a favore di Baku – e delle risoluzioni Onu si diede via libera alla nascita di uno stato albanese. Quel che colpisce in questo caso è l’univocità della narrazione, simile – tremendamente simile – alla versione ufficiale del conflitto rilanciata in queste settimane dalla propaganda azera.
Nessuno ignora gli strettissimi legami economici che uniscono Roma e Baku, così come non sorprende la presenza ed il lavoro, legittimo, di una lobby pro-Azerbaigian in Italia. Quel che lascia perplessi è che la politica italiana possa “scomparire” senza spendere una parola durante due mesi di guerra, salvo poi tornare d’improvviso alla ribalta con una visita guidata che ricorda quelle organizzate nei Paesi del vecchio blocco socialista in favore degli occidentali “da impressionare”, mostrando loro i traguardi raggiunti dal regime. Una vicenda che lascia perplessi, ma non sorprende: troppi in Italia confondono il commercio estero con la politica estera. Ovvero ritengono che in nome degli “affari” e dei contratti da firmare si possa accettare qualsiasi cosa, anche in aperto contrasto con i principi cui si dice di far riferimento. Anche quando sullo sfondo agiscono Paesi che giocano una partita apertamente ostile agli interessi italiani. Ogni riferimento alla Turchia non è casuale.