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USA/ La minaccia dell’iconoclastia politicamente corretta

di Clemente Ultimo
28 Agosto 2017
in Il punto
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USA/ La minaccia dell’iconoclastia politicamente corretta
       

 

 

La recente furia iconoclasta, abbattutasi in questi ultimi giorni su monumenti e targhe dedicate alla memoria dei soldati della Confederazione e dei suoi padri fondatori, rischia di distruggere definitivamente uno dei pochi elementi che molti Paesi europei hanno, o almeno avevano, da invidiare agli Stati Uniti: la capacità di metabolizzare la guerra civile, storicizzandone gli elementi divisivi fino a fare del conflitto una pagina della storia nazionale. Una pagina drammatica certo, ma pur tuttavia un capitolo ineliminabile di un percorso comune della collettività nazionale. Un capitolo dove prevalgono i toni di grigio rispetto ad una divisione manichea tra bianco e nero, buono e cattivo.

Una capacità di metabolizzazione, quella degli Usa, che si è tradotta anche nel rispetto per i vinti. Perdenti sì, ma non considerati parte aliena dal resto della comunità nazionale. Una prova evidente di questo atteggiamento è alla portata di tutti: basta, infatti, vedere uno dei tanti film dedicati alla guerra civile da Hollywood per rendersi conto di quale sia stato l’atteggiamento verso i sudisti, verso gli sconfitti. Basta citare qui dei classici, con protagonista l’icona del cinema a stelle e strisce degli anni ’60 John Wayne, come Soldati a cavallo o I due invincibili per arrivare al più recente Gettysburg. I “buoni” restano le giacche blu yankee, ma le giacche grigie della Confederazione sono mostrati per quel che erano, uomini in campo per difendere il proprio Paese ed una specifica idea del mondo, e non come improbabili campioni del male assoluto. E non manca, in più di un’occasione, il richiamo alla comune appartenenza e la dolente costatazione di combattere uno scontro fratricida.

E’ anche in questo modo che negli Usa si è impedito, o si è limitato, il sorgere di una “mistica dei vinti” che potesse diventare un elemento di divisione all’interno del Paese. Il contrario di quanto, invece, è avvenuto in numerosi Paesi europei. In Italia, poi, addirittura la stessa idea che nel biennio 1943 – ’45 si sia combattuta una guerra civile è acquisizione storiograficamente recente. Il mito della “guerra di liberazione”, sapientemente alimentato dal più forte partito comunista dell’occidente e dalla folta schiera di intellettuali ad esso organici, ha retto ben oltre la fine della guerra fredda. Ed ancora oggi non mancano strenui difensori di questo mito, ultimi “giapponesi” privi anche del fascino eroico che ammanta chi consacra la propria vita ad un’idea di fedeltà che trascende i limiti dell’umano.

Ebbene, anche questa virtù americana, invero una delle pochissime che si possono riconoscere alla società statunitense, vacilla e con tutta probabilità è destinata a crollare sotto i colpi dell’ipocrisia politicamente corretta. I gravissimi episodi verificatisi a Charlottesville sono il frutto avvelenato di una battaglia tutta ideologica che rischia di spaccare ancor di più un paese già segnato in profondità da ampie divisioni: razziali, ma più ancora economiche e sociali.

L’idea che rimuovendo la statua del generale Lee, soldato gentiluomo cui mai è stato possibile imputare comportamenti contrari alle leggi di guerra, si potessero ridurre le cesure interne alla società americana piuttosto che aumentarle è valida quanto quella che pensa di fermare il terrorismo islamico con i gessetti colorati e le icone di Facebook. Queste scelte iconoclaste hanno l’unico effetto di dare fiato e visibilità a sparuti gruppi di suprematisti e neonazisti americani, oltre che colpire la sensibilità di singoli e comunità che nei simboli della Confederazione avvertono un senso di appartenenza agli stati del Sud e non certo vecchie o nuove velleità segregazioniste.

Ma anche su questo punto sarebbe bene fare chiarezza: la guerra civile americana tutto fu tranne che un conflitto combattuto per la libertà degli schiavi. Questa, semmai, fu la geniale copertura politico-ideologica escogitata da Lincoln per ammantare di moralità una guerra che, più concretamente, nasceva da una profonda divergenza economica tra il Nord ed il Sud dell’Unione. E del resto il proclama di emancipazione arriverà solo nel gennaio del 1863, quando ormai negli Stati Uniti si combatte da quasi due anni.

Ma poco importa: di falsi miti si nutrono l’ipocrisia e l’iconoclastia del politicamente corretto. Oggi più che mai simili ad un tentativo di imporre, subdolamente, un pensiero unico di orwelliana memoria.

Tags: Confederazione americanastoriastoria americanaUSA
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