Londra, qualche settimana fa: mia nipote viene convocata per la vaccinazione con Astra Zeneca, ha una priorità essendo fisioterapista in una clinica inglese. Adagiata su una comoda poltrona, le si avvicina una signora che le conficca un ago con siringa nel braccio e lo estrae velocemente. In quel mentre passa una infermiera dall’aria più esperta che spiega alla collega che “no, non è così che si fa, devi infilare l’ago ma poi spingere sullo stantuffo per iniettare il liquido!”. La signora riprova, punge di nuovo il deltoide con l’ago, dà una leggera pressione allo stantuffo e poi ritira la siringa . “Noo , devi premere sullo stantuffo fino in fondo, così non inietti un bel niente !” insiste l’infermiera. Al terzo tentativo l’improvvisata vaccinatrice finalmente pratica l’iniezione. Mia nipote prende tutto con sportiva filosofia, ringrazia e se ne va.
Questo episodio spiega alcune cose: la prima che nello UK pur di fare in fretta hanno assoldato cani e porci per eseguire il piano vaccinale; la seconda che per eseguire una vaccinazione, comunque occorre qualcuno che la sappia fare. Una terza considerazione pone altri interrogativi: ammettiamo che mia nipote non sia stata la prima quel giorno a sottoporsi al vaccino con quella signora ma la decima, la ventesima: quanti “non” vaccinati sono usciti da quella postazione? E se qualcuno di quei “non” vaccinati avesse contratto il Covid19 nei giorni successivi, con quale clamore si sarebbe annunciato che il vaccino Astra Zeneca non funziona ?
A Milano, i primi giorni della vaccinazione con Pfizer, girava voce che all’ospedale San Paolo avessero sbagliato a diluire il farmaco ma poiché non era successo niente, niente era stato detto. In Emilia un congelatore era rimasto privo di corrente e migliaia di vaccini erano andati sprecati; fortunatamente il danno era stato segnalato, ma se qualcuno avesse riacceso il freezer senza dire nulla, quante persone avrebbero subito una vaccinazione con siero inattivato?
Ancora è difficile comprendere che anche se siamo nel 2021, l’errore umano è dietro l’angolo e quando si parla di grandi numeri, come i milioni di vaccinazioni in tutto il mondo, qualcosa che non quadra accadrà sempre. La vaccinazione rimane sempre l’arma migliore che abbiamo a disposizione per sconfiggere la pandemia ma dobbiamo anche guardare a tutte le terapie che possiamo utilizzare per curare chi è già malato.
Proprio ieri sono andato a domicilio a visitare una novantacinquenne che aveva contratto il coronavirus ; due settimane prima giaceva nel letto semincosciente, febbricitante , con una saturazione in ossigeno ai limiti inferiori della norma per una polmonite in atto: avevo spiegato alle due figlie che la madre andava ricoverata, ma l’idea di lasciarla abbandonata in un reparto, con la prospettiva di non vederla mai più , aveva fatto loro scartare questa scelta, e così mi avevano scongiurato di tentare una terapia a casa. Ci siamo procurati bombole di ossigeno e ho prescritto antibiotici, cortisone, antinfiammatori, eparina ad alte dosi ed in pochi giorni la forte fibra della anziana signora ha avuto il sopravvento ed all’ultima visita era ben vigile, di buon umore e di buon appetito, con i polmoni quasi liberi e la saturazione a 95%.
Essendo vaccinato ora mi sento più libero di accedere nelle case altrui, perché oggi la nuova frontiera sono le terapie domiciliari, con i farmaci che l’esperienza di migliaia di medici in tutto il mondo ha permesso di prescrivere con fiducia e con successo. Certamente non tutto è rose e fiori, il peggioramento improvviso di una situazione che per giorni può apparire stazionaria, fa parte dell’evoluzione della malattia ma ospedalizzare tutti è la peggior strategia che si possa attuare, ingolfando gli ospedali e aggravando chi ha solo sintomi lievi.
Il governo che di Speranza ha solo il nome, per mesi ha consigliato “Tachipirina e vigile attesa” come unico atteggiamento da tenere per chi fosse febbricitante a casa. Il tampone è stato idealizzato, ma non è una terapia e talvolta è solo perdita di tempo.
La giusta strategia terapeutica è L’AGGRESSIONE PRECOCE” dei sintomi infiammatori con farmaci adeguati e non paracetamolo (Tachipirina, Efferalgan) e con antibiotici; successivamente cortisone ed eparina cui si potranno associare farmaci “gregari” e integratori. Un protocollo di “Terapie domiciliari Covid19 “ circola ormai negli ambienti medici , promosso dal dottor Harvey Risch della Università di Yale e dal dottor Peter Mc Cullough del dipartimento di medicina interna e cardiologia dell’ospedale di Dallas, in Texas, a cui si sono associati oltre duecento medici italiani. Ciò che fa specie è che il protocollo si è diffuso dal basso a macchia d’olio per tutti i presidi ospedalieri della penisola. Le terapie domiciliari, osteggiate e permesse con diffidenza, permettono le cure per i casi lievi e lasciano liberi gli ospedali di lavorare sui casi gravi.
Intanto Pfizer sta già studiando una campagna pubblicitaria per quando il suo vaccino sarà in libero commercio in tutto il mondo. In un futuro non molto lontano, il paziente si recherà dal medico per avere la prescrizione di una fiala di Comirnaty; ottenuta la ricetta tornerà dal medico per farsi iniettare il farmaco, che darà adattato alle varianti del momento, come un qualsiasi vaccino antinfluenzale. Perché sia chiaro che non ce ne libereremo, di questo dannato coronavirus che non a caso si chiama 19.
Ma non ci sono notizie solo confortanti: una mia collega anestesista ha appena contratto il virus, probabile gentile regalo della babysitter: peccato abbia da un mese completato la vaccinazione Pfizer.