Quando, tra il 1867 e il 1869, Fëdor Michajlovič Dostoevskij scrisse a Ginevra, Milano e Firenze l’Idiota, grande capolavoro della letteratura russa, non poteva certo immaginare che proprio nelle ultime due città la sua figura avrebbe ispirato comportamenti degni del titolo dell’opera.
Complice l’isteria russofobica generata dalla situazione in Ucraina che, a quanto pare, con una repentina mutazione ma mantenendo le stesse caratteristiche di fondo ha soppiantato quella indotta dall’accoppiata epidemia-vaccino. Ottusità e veleni si sono trasferiti dai presunti untori no-vax a tutto ciò che è o sembra russo, a cominciare proprio dall’incolpevole Fëdor Michajlovič.
All’Università di Milano Bicocca è in programma da tempo un ciclo di conferenze su Dostoevskij curato dallo scrittore Paolo Nori, uno dei massimi esperti dell’argomento al quale però l’Università comunica quanto segue: “Caro professore, il prorettore alla didattica mi ha comunicato la decisione, presa con la rettrice, di rimandare il percorso su Dostoevskij. Lo scopo è quello di evitare ogni forma di polemica, soprattutto interna, in quanto momento di forte tensione”.
A quanto pare per l’ateneo milanese discutere in questo momento di letteratura russa dell’ottocento significherebbe creare polemiche “soprattutto interne” il che significa almeno due cose: la prima è che dentro a quella università c’è chi crede, evidentemente, che censurare la grande cultura russa significhi boicottare Putin, un po’ come se durante la I o II Guerra Mondiale in Inghilterra avessero proibito di studiare Kant o ascoltare Beethoven. A quanto pare da quelle parti ci sono docenti che credono nella censura della cultura e si battono per essa, il che sarebbe raccapricciante già di per sé.
La seconda è che un ateneo pubblico preferisce cancellare un momento di divulgazione culturale ad alto livello aperto a tutti, pur di evitare polemiche “interne”, cioè beghe tra chierici che vengono anteposte alla propria missione culturale.
Uno zelo quasi maccartista che contribuisce alla condanna della Russia più o meno come un cameriere che si rifiutasse di servire insalata russa. Solo che qui siamo all’Università, non in trattoria. L’assurda decisione dei vertici della Bicocca scatena (per fortuna) un putiferio e il rettore Giovanna Iannantuoni, incalzata dalla sacrosanta indignazione, è costretta a fare precipitosamente marcia indietro rifugiandosi, pare, dietro ad un presunto malinteso: “L’Università di Milano-Bicocca è un ateneo aperto al dialogo e all’ascolto anche in questo periodo molto difficile che ci vede sgomenti di fronte all’escalation del conflitto …. [l’ateneo] conferma che tale corso si terrà nei giorni stabiliti e tratterà i contenuti già concordati con lo scrittore. Inoltre, la rettrice dell’Ateneo incontrerà Paolo Nori la prossima settimana per un momento di riflessione”.
L’università della Bicocca non è nuova a situazioni del genere: poco tempo fa, quando la caccia alle streghe riguardava i cosiddetti no-vax, aizzata dal redattore del sito web di una fondazione scientifica aveva sentito il bisogno di sconfessare pubblicamente un suo docente reo di avere espresso un’opinione in tema di vaccini non in linea con quella omologata: “Le opinioni espresse dal dottor Broccolo non rappresentano il pensiero dell’istituzione. Nostre ulteriori azioni e considerazioni a riguardo saranno tenute al di fuori del contesto social. Grazie della comprensione” Con buona pace della libertà di opinione, di ricerca e insegnamento.

Nemmeno a Firenze, dove nel gennaio 1867 finiva di scrivere L’idiota, tira una buona aria per Dostoevskij: il sindaco Nardella, infatti, ci informa che qualcuno gli avrebbe chiesto “di buttare giù la statua di Dostoevskij a Firenze. […] Invece di cancellare secoli di cultura russa, pensiamo a fermare in fretta Putin”.
Sarebbe interessante sapere chi sia questo qualcuno, o meglio questo somaro, probabilmente un esaltato della sua area politico-culturale (non che quella opposta stia rivelando diversa e migliore) che vorrebbe accodarsi alla barbarica pratica dell’abbattimento selvaggio di statue in nome della cancel culture. La russofobia indotta dalla guerra, o meglio dalla sua narrazione, non colpisce solo la letteratura ma anche la musica.
A Milano il Sindaco Sala ha ingiunto qualche giorno fa al direttore d’orchestra russo Valerij Abisalovič Gergiev, che doveva dirigere la Dama di Picche di Čajkovskij alla Scala, una presa di posizione pubblica contro la politica del suo paese pena l’ostracismo dal teatro.
Gergiev, che pare sia anche amico di Putin, non ha nemmeno risposto ed è stato quindi cacciato senza tanti compimenti. L’esempio milanese è stato poi seguito da altre istituzioni occidentali con le quali il maestro collaborava.
La Scala ha diffuso un anodino comunicato ufficiale secondo il quale sarebbe stato chiesto al maestro solo di pronunciarsi a favore “della risoluzione pacifica delle controversie”, concetto alquanto vago e assai indefinito in netto contrasto con i toni ultimativi e perentori del sindaco che aveva invece preteso che Gergiev prendesse “una posizione precisa contro questa invasione “.
Nello stesso comunicato, un po’ paradossalmente, la Scala ribadisce di voler restare “un luogo di confronto e dibattito” anche se in questo caso non si sono visti né l’uno né l’altro.
Ne ha preso atto il soprano Anna Netrebko, la Lady Macbeth della prima di questa stagione, che pur avendo spontaneamente condannato la guerra ha deciso di rompere con la Scala abbandonando la Adriana Lecouvreur di Cilea in programma tra qualche giorno per solidarietà con Gergiev e, soprattutto, perché ritiene ingiusto subire imposizioni di quel genere.
“Questa situazione è troppo seria per commentarla senza dare un vero pensiero. Innanzitutto sono contro questa guerra. Sono russa e amo il mio paese, ma ho molti amici in Ucraina, e il dolore e la sofferenza mi spezzano il cuore. Vorrei che questa guerra finisse e che la gente potesse vivere in pace. Questo spero e per questo prego”, aveva dichiarato il soprano, aggiungendo “non è giusto costringere gli artisti a esprimere pubblicamente le proprie opinioni politiche e a denunciare la propria terra di origine”.
La censura dell’arte, della cultura e delle opinioni non diventa legittima o meno odiosa solo perchè praticata dai “buoni” per fini più o meno nobili. Resta una pratica detestabile che finisce per rendere i “buoni” non troppo diversi dai “cattivi” e spesso ridicoli, come nel caso della abortita censura di Dostoevskij.
Basterebbe guardare i precedenti per rendersene conto.