All’indomani della tragedia del Vajont — una tragedia del Nord più povero e profondo, una tragedia delle duri genti della durissima e avara montagna veneta e friulana, una tragedia tutta italiana — Dino Buzzati scrisse sul Corriere della Sera “un sasso è caduto in un bicchiere colmpo d’acqua e l’acqua è traboccata. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi…la diga è costata duemila morti. I quali morti non sono della Cina o delle Molucche, ma erano gente della mia terra che parlavano come me, avevano facce di famiglia e chissà quante volte ci siamo incontrati e ci siamo dati la mano e abbiamo chiacchierato insieme. E il monte che si è rotto e ha fatto lo sterminio è uno dei monti della mia vita il cui profilo è impresso nel mio animo e vi rimarà per sempre. Ragione per cui chi scrive si trova ad avere la gola secca e le parole di circostanza non gli vengono. Le parole incredulità, orrore, pietà, costernazione, pianto, lutto, gli restano dentro col loro peso crudele”.
Non vi è nulla d’aggiungere, nulla da commentare. Cinquant’anni fa come oggi.
Mario Landolfi/ Chi sono i veri padroni della televisione di Stato
Ricordate le infuocate battaglie intorno alla Rai ai tempi del Berlusconi regnante? Beh, dimenticatele: da quando lo scontro politico si...
Leggi tutto
Che Buzzati ha preso una grossa cantonata, non è stata una tragedia naturale, ci sono dei colpevoli (anche se la giustizia non ha fatto del tutto il suo dovere) e precise cause. E’ stata una tragedia del lucro.
Le vere cause e le terribili responsabilità della tragedia sono ben note. Non era nostra intenzione ripercorrere in questa sede e in questo giorno le scandalose vicende giudiziarie che seguirono alla catastrofe. Il pezzo di Buzzati — uno dei migliori giornalisti del dopoguerra — era un omaggio doloroso alla sua terra e alla sua gente. E come tale va letto e (speriamo) apprezzato.