Papa Benedetto XVI° ha vinto contro la Curia vaticana.
La sua rinuncia al Soglio è stato un atto rivoluzionario; almeno, «un atto creativo», come l’ha definito il cardinale Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana.
Ha detronizzato il potere clericale.
Il suo successore, infatti, forse da Lui previsto, se non propiziato, per prima cosa ha proclamato il primato della cura delle anime su quella del governo.
Ha esortato i sacerdoti ad essere pastori, « non funzionari »; ha eletto a referenti i popoli, non gli Stati.
Ha marcato fisicamente la separazione dai privilegi di casta, alloggiando, celebrando messa, stando a mensa in comunità, nel Collegio Sant’Anna.
Ha istituito una Commissione Internazionale che lo coadiuvi nella guida della Chiesa.
Ha espresso dubbi sull’utilità della banca vaticana.
Ce n’è abbastanza, (e siamo agl’inizi !), per capire la scelta del nome Francesco, il Santo che s’è immedesimato, fino a riceverne le stimmate, con Gesù Cristo, esempio supremo di rinuncia alla mondanità e di servizio agli ultimi, d’incondizionata sottomissione a Dio, e incommisurabile amore per l’umanità.
E’ un ritorno alle origini, una rivoluzione appunto!
In continuità con il richiamo di Benedetto XVI° all’ortodossia, alla tradizione, all’eleganza delle forme e dei riti, all’universalità del latino.
All’algida omelia del teologo succede l’affabulazione coinvolgente del pastore.
In papa Francesco si fondono e si confondono il tratto dinamico, innovatore ed ecumenico del gesuita, con quello affabile e affidabile del francescano, il « combinato disposto » più idoneo a ricondurre la Chiesa al suo fondatore, Cristo.
Cristo è la fede in Dio, la speranza dell’eternità, la carità che redime dal male.
E’ il centro di gravitazione per entrare nel quale bisogna uscire dall’orbita della secolarizzazione, emanciparsi dalle suggestioni illuministiche e positivistiche del materialismo e dell’economicismo, generatori di egoismi e conflitti, sopraffazioni e sfruttamenti, iniquità e violenze.
Paradossalmente, solo venendo «dai confini del mondo» si riesce a riconoscerne il centro. Solo sottraendo la Chiesa al tramonto dell’Occidente, è possibile restituirla al suo ruolo, alla sua missione, al suo regno, «che non è di questo mondo».
Al modo stesso cui Roma deve la sopravvivenza della sua civiltà agli uomini e ai legionari delle terre remote, non contagiati dal «cupio dissolvi» della classe dirigente e delle istituzioni centrali.