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Via Rasella e Fosse Ardeatine. Inutili polemiche e verità negate

di Domenico Bonvegna
1 Aprile 2023
in Home, Pòlis
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Via Rasella e Fosse Ardeatine. Inutili polemiche e verità negate
       

Nel 78° anniversario della strage delle Fosse Ardeatine, (24 marzo 1944), come ogni anno si commemorano le vittime dell’eccidio nazista perpetrato a Roma, alla fine della Seconda Guerra mondiale. Quest’anno l’anniversario è stato “macchiato” secondo i sinistri, da due dichiarazioni, una del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni (“335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani”) e l’altra, più che altro una serie di dichiarazioni rilasciate durante un’intervista a Libero, del presidente del Senato Ignazio La Russa (“L’attentato di via Rasella non è stata una delle pagine più gloriose della Resistenza partigiana, quelli che i partigiani hanno ucciso non erano biechi nazisti delle SS ma una banda musicale di semipensionati, altoatesini (in quel momento mezzi tedeschi, mezzi italiani), sapendo benissimo il rischio di rappresaglia al quale esponevano i cittadini romani, antifascisti e non”).

La sinistra italiana, in particolare gli esponenti del Pd e naturalmente gli immancabili partigiani dell’ANPI, hanno gridato allo scandalo, “come si permette di…”. Forse l’accusa più grave è quella che i politici non devono trattare temi di storia. Poi vi risparmio le reazioni scomposte.

La verità storica

Riapriamo allora i libri e cerchiamo di capire cosa effettivamente è accaduto. I partigiani romani (GAP) decidono di fare un attentato contro gli occupanti nazisti. L’azione, del cui ordine dopo la guerra si assunse la responsabilità Giorgio Amendola, fu compiuta da una dozzina di gappisti (tra cui Carlo Salinari, Franco Calamandrei, Rosario Bentivegna e Carla Capponi) e consistette nella detonazione di un ordigno esplosivo improvvisato al passaggio di una colonna di soldati in marcia e nel successivo lancio di quattro bombe a mano artigianali sui superstiti. Causò la morte di trentatré soldati tedeschi e di due civili italiani (tra cui il dodicenne Piero Zuccheretti). Prima di scatenare l’eccidio dei 335 italiani, il comando nazista ha lanciato un ultimatum, tramite manifesti, affinché l’esecutore, o gli esecutori, si presentassero. In caso contrario sarebbero stati fucilati dieci italiani per ogni soldato tedesco morto. Gli autori materiali, Carla Capponi e Rosario Bentivegna non si sono presentati, ben sapendo che avrebbero pagato degli innocenti al loro posto.

Faccio parlare lo storico e scrittore cattolico Vittorio Messori che in un intervento sul quotidiano Avvenire ricorda la dinamica dell’attentato o agguato di Via Rasella “qualificandolo per quello che oggettivamente è stato: un attentato terroristico, non un’azione di guerra».

Ma non basta: «La strage di via Rasella fu voluta deliberatamente dalla componente socialista e comunista del Cnl romano per creare un capitale d’odio da far fruttare quando, da li a poco, i tedeschi avessero lasciato la capitale. Oggi si tende a dimenticarlo, ma la rappresentanza cattolica delle forze partigiane era contraria a quell’aggressione. Anche perché si sapeva, senza alcuna possibilità di dubbio, che i tedeschi avrebbero scatenato la rappresaglia. Del resto, erano le stesse leggi internazionali in vigore all’epoca a mettere quest’arma terribile nelle mani dell’esercito occupante».

Ma l’elenco delle dimenticanze, secondo Messori, è molto più lungo. Qualche esempio? «Come mai nessuno ricorda più che, nell’immediato dopoguerra, l’Associazione dei parenti delle vittime delle Fosse Ardeatine sporse denuncia contro gli autori dell’attentato di via Rasella, ritenendoli corresponsabili della morte dei loro cari? E più ancora: come mai, in più di cinquant’anni, a nessun giornalista è venuto mai in mente di incontrare i parenti dei soldati uccisi dalla bomba dei partigiani? L’ordigno ne ammazzò 33, tutti altoatesini della Territoriale, che tornavano disarmati dalla costruzione di una trincea. Senza contare che, insieme con i militari, morirono anche tre civili romani, tra cui un bambino. Si vede che i morti, purtroppo, non sono tutti uguali…».

Ancora cito Messori, «i comunisti volevano attizzare l’odio della gente contro i nazisti e ottennero inoltre di eliminare molti partigiani non marxisti. […] I partigiani che colpirono in via Rasella avevano messo in conto una rappresaglia feroce come quella che poi si verificò alle Fosse Ardeatine. Così la Resistenza aveva raggiunto il suo obiettivo: l’odio contro i tedeschi si era riacceso» [1].

C’è un’altra testimonianza – quasi del tutto ignorata dalla storiografia ufficiale – quella dello storico tedesco Hubert Jedin, sacerdote di origine ebraica che in quegli anni si trovava nella Città Eterna a lavorare presso l’Istituto Storico Germanico poiché sospetto alle autorità del Reich in quanto «non ariano» [6]. In una delle pagine del suo diario – scritta nei primi giorni di marzo 1944 – l’autore della monumentale “Storia della Chiesa” riportò la confidenza di un esponente della resistenza romana il quale gli confessò: «Deve succedere qualcosa che guasti questa riconciliazione (della popolazione civile) con la potenza occupante» [7]. Ciò trova conferma nell’ordine diramato dall’organizzazione militare della resistenza romana che in quei giorni aveva vietato di compiere atti di violenza come quello di via Rasella poiché «la gravità delle conseguenti possibili rappresaglie impedisce di condurre molto attivamente la guerriglia» [8] e ciò avrebbe dovuto – nella Capitale come in tutte le altre grandi città – far preferire la via della propaganda a quella del terrorismo, poiché di questo si trattò. Lo scrisse anche il socialista Alberto Benzoni il quale, nel 1999, si spinse ad affermare che «l’attentato non aveva alcun valore militare essendo le vittime dei riservisti altoatesini senza ruoli di combattenti» implicando invece «dei rischi per la popolazione civile e la certezza di una dura rappresaglia nazista» [11]. In effetti fu così: il reparto colpito a Via Rasella non era di SS [12] – come conferma il saggio postumo dello storico americano Richard Raiber [13] – ma si trattava dell’11ª compagnia del III Battaglione Polizei Regiment ‘Bozen’ al comando del maggiore Hellmuth Dobbrick: nulla più che un reparto di polizia formato da riservisti altoatesini con cittadinanza tedesca – impiegato a Roma con compiti di semplice vigilanza urbana – in quel momento in fase di addestramento. I soldati sudtirolesi della Bozen morti nell’attentato di Via Rasella Erano in gran parte coscritti sudtirolesi, «tutti contadini italiani arruolati contro la propria volontà a seguito della creazione della Zona di Operazione delle Prealpi […]. All’inizio della guerra questi soldati avevano prestato servizio militare per il Regno d’Italia giurando fedeltà ai Savoia; una volta sotto controllo tedesco, erano stati inviati a Roma perché sapevano l’italiano e, considerati troppo vecchi per essere impiegati al fronte, venivano utilizzati per operazioni di polizia, principalmente per fare la guardia agli obiettivi che i superiori volevano sorvegliare» [14]. 

La lettera di Teresa Bentivegna

Infine mi pare interessante pubblicare una lettera del 25/3/2009 inviata al quotidiano Avvenire da Teresa Bentivegna, una parente di uno degli attentatori.

«Quel manifesto ci fu: chi lo nega mente, e lo sa». Ho seguito con molto interesse su Avvenire gli articoli su via Rasella e sul manifesto contestato (c’è stato, non c’è stato) e il documento lasciato dal dottor Vittorio Claudi, che ne ricorda l’affissione in piazza Verdi, e gradirei che il suo giornale mi desse la possibilità di dare il mio modesto contributo alla verità su quella tragica pagina della nostra storia. Sono Teresa Aguglia Bentivegna [seconda cugina di Rosario Bentivegna, ndr] e al tempo dell’attentato ero solo una bimbetta di tre anni, per cui non posso e non ho infatti alcun ricordo dell’accaduto. Ma, crescendo, ho da sempre sentito raccontare dai miei, con pena sofferta, il racconto dell’attentato e l’eccidio tedesco che ne seguì come rappresaglia. Dico con pena sofferta da parte dei miei, perché il nome dell’attentatore è sempre stato noto alla mia famiglia (allora residente in Sicilia), così come era da sempre noto che il comando tedesco lanciò un ultimatum, tramite manifesti, affinché l’esecutore, o gli esecutori, si presentassero. In caso contrario sarebbero stati fucilati dieci italiani per ogni soldato tedesco morto. Nessuno si presentò, e 320 italiani innocenti pagarono per quella bomba esplosa al passaggio dei soldati del battaglione Bozen che attraversavano via Rasella. L’autore dell’attentato per quel gesto fu insignito di diverse onorificenze, e qualche anno fa la Cassazione ha classificato il suo gesto come missione (o atto) di guerra. A mio parere, il documento del dottor Claudi non fa altro che convalidare ulteriormente una verità che moltissimi hanno sempre saputo. Chi ha negato in tutti questi anni l’esistenza di quel manifesto, evidentemente lo ha sempre fatto in perfetta malafede, mentendo e sapendo di mentire».

Note: [1] Cfr. l’agenzia Via Rasella: Messori, complotto dietro strage partigiana, in Archivio Adnkronos, AdnAgenzia, 4 settembre 1996., Unione Internazionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell’Arte in Roma, 2015, p. 149. [7] H. Jedin, Lebensbericht. Mit einem Dokumentenanhang, a cura di K. Repgen, Mainz, Matthias-Grünewald, 1984. [8]  in «Quaderni Culturali delle Venezie» dell’Accademia Adriatica di Filosofia “Nuova Italia”, del 25 marzo 2020. [11] A. Benzoni, Attentato e rappresaglia, il PCI e Via Rasella, Venezia, Marsilio, 1999. [12] R. Bonuglia, Chi ricorda i martiri cattolici di Via Rasella?, in «Quaderni Culturali delle Venezie» dell’Accademia Adriatica di Filosofia “Nuova Italia”, del 23 marzo 2020. [13] R. Raiber, Anatomy of Perjury. Field Marshal Albert Kesserling, Via Rasella, and the Ginny Mission, Lanham, Rowman & Littlefield, 2008. [14]

Tags: antifascismoFosse ArdeatineIgnazio La RussaresistenzaRomastoria
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