Quando le legioni romane arrivarono ai confini con la Caledonia, l’odierna Scozia, non osarono andare oltre.
Temevano le incursioni dei Pitti, popolo fiero e combattivo del territorio delle Highlands, fatto di altipiani con ampie valli e fitte foreste in cui nascondersi. I Romani costruirono il Vallo Adriano , una lunga muraglia che congiungeva la costa occidentale a quella orientale, costruendo ad intervalli regolari un certo numero di “castrum”, che poi divennero “chester” in inglese, a presidiarla.
Passarono i secoli ed ai Pitti si unirono gli Scoti, ma la Caledonia rimase inviolata, tranne che per alcune incursioni dei Vichinghi. Gli Scozzesi rimasero a lungo soli, scontrandosi in piccole guerre tra clan, giusto per mantenere vivo il proprio carattere combattivo.
Con l’arrivo del Novecento, il popolo scozzese fu chiamato a dare il suo contributo nella Grande Guerra, dove donò 470.000 caduti alla causa britannica.
Ad Edinburgo svetta sulla città il memoriale dedicato a tutti gli Scozzesi morti nella Prima Guerra Mondiale, all’interno sulle sue pareti sono incisi i nomi di tutti i caduti. Grande è il rispetto per chi ha dato la vita per la patria scozzese.
Quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, uno tra i primi episodi bellici fu l’affondamento della Royal Oak, avvenuto nell’ottobre del 1939 , nella baia di Scapa Flow, nelle isole scozzesi delle Orcadi. Un sommergibile tedesco, un U47, riuscì con destrezza ad entrare nella base della Royal Navy ed a centrare la nave ammiraglia britannica. Furono 834 i marinai a bordo che trovarono la morte in fondo al mare, centinaia rimasero uccisi per assideramento. Per tutti valse la frase scolpita nel Memoriale di Edimburgo “They have no other grave than the sea” ( non hanno altra tomba che il mare).
Il primo ministro Winston Churchill decise allora di far rinforzare le difese della base navale nelle Orcadi, creando delle barriere , costituite da rocce prese da una cava locale e da vecchi relitti di navi da dislocare sul fondo.
Per fare ciò occorreva una forza lavoro che al momento mancava , finché non arrivarono in Scozia i primi POW ( prisoners of war): ma non erano prigionieri qualunque. Costoro erano in gran parte i soldati italiani imprigionati dopo il conflitto in Nord Africa, alcuni erano anche reduci di El Alamein. In quell’epica battaglia gli Italiani, pur con pochi mezzi e male armati, in inferiorità numerica, inflissero alla 8° Armata britannica molte perdite , tanto che il generale Rommel ammise : “Il soldato tedesco stupì il mondo, il soldato italiano stupì il soldato tedesco.”
Con queste premesse, tra gli aborigeni dell’antica Caledonia ed i nostri soldati ancora loro nemici , non doveva correre buon sangue.
Il carattere chiuso e scontroso degli scozzesi poi, mal si adattava alla nostra proverbiale spontaneità ed umanità.
Abbiamo scritto che gli Italiani non erano soldati qualsiasi ed infatti al Camp 60 , dove erano tenuti prigionieri, si verificarono agli inizi dei casi di “indisciplina collettiva”, episodi poco frequenti nei campi britannici dislocati nel mondo. Nel marzo 1942 i nostri POW, facendo riferimento alla Convenzione di Ginevra, si rifiutarono di lavorare in base al principio che tali attività potevano favorire lo sforzo bellico del paese nemico. Contro i nostri soldati vennero attuate misure repressive che indurirono le condizioni già precarie di prigionia. Lo sciopero ebbe termine solo quando l’inviato svizzero che rappresentava l’Italia presso il Protettorato ai Prigionieri di Guerra riuscì a convincere i 1300 italiani che le ”Churchill’s barriers” costituivano un sistema di ponti civili per permettere alla popolazione delle Orcadi di spostarsi da un’isola all’altra e così venne aggirata la Convenzione di Ginevra.
La condizione di prigionieri, la lontananza da casa, il clima difficile, l’ostilità iniziale della popolazione locale, avrebbero potuto gettare nello sconforto i nostri soldati. Poi un giorno alcuni, parlando tra loro, decisero che era giunto il momento di riscattarsi da quella situazione; che occorreva reagire.
Sulla piccola isola di Lamb Holm , un tale Domenico Chiocchetti iniziò con lo scolpire una statua di San Giorgio che uccide il drago, utilizzando un’anima in filo spinato e del cemento; all’interno della base fu depositata una pergamena con i nomi di tutti i nostri prigionieri.
Poi sopraggiunse l’idea di costruire addirittura una piccola chiesa, utilizzando due capannoni abbandonati.
L’interno venne tutto intonacato con cemento e stucco, simulando anche pareti di mattone. Un fabbro tra i prigionieri, tale Palumbo, costruì un’inferriata in ferro battuto prospicente l’altare, realizzato in cemento.
Sempre Chiocchetti trovò tra i suoi pochi effetti personali una sgualcita immaginetta di una Madonna col Bambino, riproducente una conosciuta Madonna dell’Olivo , dipinta da un pittore ottocentesco, Nicolò Barabino.
Sopra l’altare riprodusse questo ritratto della Madonna con il Bambino, di una commovente bellezza; tra tutti i prigionieri si creò così una gara a far sempre più bella la chiesetta, tutta costruita con materiali improvvisati, recuperati dai relitti delle navi affondate ed utilizzate come barriere. Con il legno di una nave fu realizzato il tabernacolo, con dei barattoli i candelabri; ai due lati dell’altare trovarono posto due finestre di vetro colorato raffiguranti una san Francesco e l’altra santa Caterina, i patroni d’Italia.
La chiesetta prendeva sempre più forma ed a questo punto l’entusiasmo contaminò anche i più riottosi fra gli abitanti delle isole. Quei fieri scozzesi furono conquistati per una volta dal nostro entusiasmo e cominciarono a contribuire anche loro nella realizzazione dell’opera, donando altri materiali ed anche denaro, in alcuni casi lavorando con i nostri POW cattolici, loro anglicani e protestanti.
Poiché però l’immagine originale del capannone ancora rimaneva evidente, fu costruita una facciata, intonacata di bianco, con un piccolo campanile e guglie gotiche. Al centro, in un timpano , il bassorilievo in cemento color argilla raffigurante il volto di Cristo. All’interno, nell’abside, venne dipinta una colomba, raffigurante lo Spirito Santo.
Al termine dei lavori , che Chiocchetti volle completare a guerra già finita, si materializzò sull’isoletta di Lamb Holm un gioiello di cappella, il miracolo italiano.
Questa chiesetta rimane ancora oggi meta di visite e pellegrinaggio da parte di molti turisti e fedeli; in queste lande desolate appare come d’incanto e proprio di fronte sventola, su un alto pennone, il nostro tricolore, in terra di Scozia. Sul fianco destro del terreno è stato posto un crocifisso, dono di Moena, città natale di Chiocchetti, in Trentino.
Quei soldati, depositari di valori oggi difficili da ritrovare, reagirono alle sofferenze della prigionia ripescando dall’intimo del proprio cuore quella spiritualità che la guerra poteva aver cancellato e la risvegliarono nel popolo che li teneva prigionieri.
Anche Giovannino Guareschi non era un prigioniero qualsiasi : in quegli stessi anni, detenuto in un lager tedesco, denutrito, stava per lasciarsi andare e cadere nella più nera disperazione , quando urlò a se stesso: “ Non muoio neanche se mi ammazzano” e reagì. Cominciò a scrivere un diario che leggeva ai suoi compagni di sventura, poi trovò anche la forza di scrivere il testo di una canzone dedicata alla figlia Carlotta, che non aveva ancora conosciuto.
Scrisse Guareschi su “Diario clandestino”: “ Non abbiamo vissuto come bruti. Non ci siamo chiusi nel nostro egoismo. Non abbiamo mai dimenticato di essere uomini.”
Al Camp 60 nessuno scrisse un diario ma non ci fu bisogno: quelle frasi le conoscevano bene.