Nella festa di San Bernardo, a Macugnaga, alle pendici del Monte Rosa, in una bellissima sera di luglio,si è svolto un’interessante convegno per celebrare l’alpinismo, quello vero, fatto di conquiste personali.
Nel corso della serata è stato proiettato un film, non recente, sulle figure di Walter Bonatti e Reinhold Messner, i due più grandi alpinisti italiani, figli di due epoche diverse, gli anni 50 e 70.
Nella proiezione i due grandi alpinisti, divenuti amici se non fratelli, si confidavano sul loro modo di concepire le scalate.
Walter Bonatti, nella mia adolescenza è stato per me un autentico eroe; ogni settimana mio padre comprava Epoca, su cui potevo leggere i suoi resoconti di viaggi nei luoghi più impervi e disparati del mondo, arricchiti di splendide fotografie. Era anche uno dei conquistatori del K2, impresa italiana del 31 luglio 1954.
Bonatti confessa che è cresciuto leggendo Salgari, un autore dei primi del Novecento che senza aver mai viaggiato, raccontava di avventure nella giungla, fra i mari dei Caraibi, con protagonisti i mitici Sandokan e Yanez, il Corsaro Nero, alle prese con i crudeli Thugs e le Tigri di Momparacem. Anch’io ho letto Salgari, e ho coltivato la mia immaginazione con le imprese di questi uomini coraggiosi. Una volta l’immaginazione era alla base dei nostri sogni, oggi conta solo l’immagine, già compiuta.
Bonatti sognava l’avventura; nella sua infanzia ancora non c’erano le montagne, racconta che da bambino una volta lungo le rive del Po, si immaginava il deserto là dove c’erano le sabbie che lambivano il fiume, a sua volta diventato oceano, con foreste impenetrabili fatte poi solo dai pioppi lungo gli argini.
Perché per Bonatti, diventato adulto, l’avventura devi prima sognarla, poi realizzarla. Non la si compra in un’agenzia di viaggi.
Bonatti e Messner si sono trovati non solo perché grandi alpinisti, ma perché entrambi, per invidia, hanno avuto per anni a che fare con malelingue che ne minavano la cristallina personalità.
Ogni maldicenza é poi stata spazzata via da prove inconfutabili, ripristinando la correttezza dei loro comportamenti.
Messner ha creato un museo dell’alpinismo dove è esposta la tenda con cui Bonatti si riparava nei bivacchi; fa tenerezza guardarla, nella sua fragilità.
Quegli uomini affrontavano rischi terribili in condizioni estreme; avevano coraggio, ma non c’è coraggio senza la paura. Una notte Bonatti, durante un bivacco, guardò in alto verso la ripida e liscia parete che avrebbe dovuto affrontare: fu preso dal terrore e si ritirò . Quando tornò davanti a quella parete, tempo dopo, la affrontò con decisione e vinse. Anche Messner, molte volte si tirò indietro, sull’Himalaya, ma poi riprese coraggio ed anch’egli vinse.
Ma cosa si vince in quelle imprese temerarie? Si vince il bene più prezioso, la conoscenza di se stesso. Su quelle pareti non c’è un aiuto esterno, sei solo con te stesso, e provi una solitudine estrema perché altri esseri viventi della tua stessa specie non ci sono per centinaia di chilometri.
Allora, dicono, entrambi, viene fuori la tua animalità, il tuo affidarti agli istinti, a non sottovalutarli, perché sono lì per farti sopravvivere. Se mangi è per nutrirti, se bevi è per non disidratarti, e respirare è spesso un dono. Perché anche noi siamo animali, in quanto esseri viventi di uno stesso pianeta, e dobbiamo rispetto ad ogni forma di vita.
Ecco perché Messner è così sensibile sui temi ambientali e lo era anche Bonatti.
E’ stato commovente ascoltare le parole di Bonatti, un anno prima della sua inaspettata scomparsa nel 2011, con i commenti appassionati di Messner, in un contesto splendido, sotto un Monte Rosa incombente, ancora innevato, in un luglio infuocato.