Corea del Sud, 1988 (l’anno delle Olimpiadi di Seul): Joon-gyeong è un liceale, orfano di madre e genio della matematica, legatissimo alla sorella maggiore Bo-gyeong, ma che non rivolge la parola al padre, il ferroviere Tae-yoon. Proprio la ferrovia è il principale interesse di Joon-gyeong, che vive in un villaggio tra i boschi, collegato al resto della nazione soltanto dai treni, ma privo di stazione: quando gli abitanti del paese intendono andare in città, devono percorrere i binari a piedi, con l’incognita di trovare o meno la galleria libera. Scrive continuamente ai politici di Seul, finché non attira l’attenzione di Ra-hee, bellissima e svampita figlia di un deputato.
L’interpretazione migliore è forse quella di Lee Soo-kyung (la star coreana più ammirata e premiata del momento nel ruolo di Bo-gyeong, sorella maggiore del protagonista): ma è la simpaticissima (e un po’ scema) Ra-hee a dare ritmo al film, col suo romanticismo da romanzetto e la sua determinazione (diventare la musa di un genio). Comincia come commedia (sugli scudi: i tre indizi da cui Ra-hee capisce che Joon-gyeong è un genio, il quiz di cultura generale e il pasticcio con la videocassetta) e diventa (andando avanti nel film, ma indietro nel tempo) un grande dramma: sempre con una grazia ammirevole, e gli si perdonano un paio di momenti non proprio originalissimi (la camminata tra le lucciole, e il confronto in aeroporto sulle note di “Reality”, la sin troppo celebre canzone di Richard Sanderson al centro del film “Il tempo delle mele”). È comunque una piccola meraviglia, un film adorabile con i suoi personaggi folli, la trama ispirata a una storia realmente accaduta (negli anni ’80 una famiglia si trovò a vivere in una zona senza strade nella regione del Gyeongsang) eppure surreale, la compostezza nel raccontare un dramma esagerato. Sembra di vedere i “kuretake”, gli acquerelli giapponesi: un angolo di mondo armonioso, calmo, aggraziato. Sono piccole storie, ma si lascia il cinema con l’impressione d’aver visto qualcosa di grande.
Dopo la breve moda, nei primi anni Duemila, del cinema coreano (per lo più violento), è esplosa di recente quella del K-Pop, le boyband (su tutte i BTS) per nulla distinguibili dai colleghi occidentali degli scorsi decenni. È auspicabile che “Miracle” sia l’alfiere d’un nuovo cinema coreano apprezzato a livello mondiale. Grande successo in patria e negli USA, per “Miracle: Letters to the President”. In Italia (dove non ha nemmeno la pagina Wikipedia) non lo ha guardato nessuno: si preferiscono i soliti filmetti con cui il circolo pariolino che presidia Cinecittà racconta le proprie nevrosi e la propria quotidianità, come fossero questioni d’importanza nazionale.
