Tra il 1971 e il 1972, David Bowie (che dopo il successo planetario del singolo “Space Oddity” nel ’69, in concomitanza con lo sbarco sulla Luna, aveva corso il rischio di restare una “one hit wonder”) aveva pubblicato due album rimasti pietre miliari: “Hunky Dory” (ammaliante riassunto dei suoi primi riferimenti culturali, dall’esoterismo idiota alla Crowley al maledettismo cretino di Lou Reed, dalle vaccate di Andy Warhol a Bob Dylan – che non gradirono – sino a uno sfottò a Frank Sinatra, “Life On Mars?”) e “The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars” (concept album dedicato a un immaginario “messia lebbroso” del rock, chitarrista marziano ispirato a Jimi Hendrix, a Vince Taylor e a Gene Vincent). Era, “Ziggy Stardust”, parte della gara con Bryan Ferry (ammirato e temuto da Bowie, che lo considerava il miglior paroliere della loro generazione e ne invidiava il successo con le donne) e i suoi Roxy Music a chi fosse più fuori di testa (vinta in un primo momento da Ferry, che con le storiacce raccontate nei primi due album sembrava uno degli psicotici più inquietanti in circolazione: poi la passione dell’ex vasaio per la dolce vita ebbe il sopravvento sulle follie, e pian piano si trasformò nel più rassicurante crooner degli anni ‘80, spesso geniale – “Limbo”, “Don’t Stop the Dance” – e a volte raccapricciante – “Slave to Love”).
In “Ziggy Stardust” era già scritto che il personaggio del titolo, secondo alter ego (dopo il Major Tom protagonista della sventurata missione di “Space Oddity”, e che nel 1980 tornerà in forma di allucinazione tossica in “Ashes To Ashes”) di Bowie, non avrebbe avuto vita breve: la canzone eponima già proclamava la fine della carriera della sua band, i “Ragni Marziani”, previo linciaggio di Ziggy (“when the kids have killed the man / I had to break up the band”), e la canzone di chiusura non era proprio un invito alla serenità e all’ottimismo (“Rock’n’Roll Suicide”). Dopo diciotto mesi di tour mondiale nel quale i fan guardavano davvero a Bowie/Ziggy come a un messia, confondendo la persona del cantante con quella del personaggio e dandosi a scenate (attacchi isterici, crisi di pianto, assalti al palco, file fuori dal camerino) che rievocavano le scene più brutte della Beatlemania, l’appena ventiseienne Bowie era comprensibilmente spaventato da quel che aveva scatenato, oltre che stanco (le tappe del tour erano tante, la pressione della stampa era soffocante, i costumi e i riflettori lo facevano cantare come se sul palco ci fossero stati 50°, la dipendenza dalla cocaina lo aveva già reso uno scheletro). Convocò allora Donn Allan Pennebaker, documentarista diventato celebre con “Dont Look Back” (sì, senza apostrofo), resoconto del tour inglese di Bob Dylan nel 1965 (il film uscì due anni dopo), il cui momento più noto è il clip di “Subterranean Homesick Blues” (considerata la canzone che ha dato origine al rap), con Dylan che mostra allo spettatore dei cartelli che riassumono il brano e, sullo sfondo, fa capolino quella brutta cosa che era Allen Ginsberg; a Pennebaker fu commissionato di riprendere il concerto finale del tour di Ziggy, all’Hammersmith Odeon di Londra, il 3 luglio 1973.
Un concerto infernale, chiassoso (i “Ragni” maltrattano gli strumenti), buio (un riflettore segue Bowie – che, oppresso dai costumi di Kansai Yamamoto e Freddie Burretti e dal sudore, non si muove molto, non fosse per esibire la sua conoscenza del kabuki e le lezioni di mimo di Lindsay Kemp – isolandolo: tutto intorno è nero, Pennebaker prova a filmare qualche ragazza ma il pubblico è quasi invisibile), opprimente (i soli momenti di “pace” sono quelli in cui Pennebaker segue Bowie – che incontra l’allora moglie Angela, e l’ex Beatle Ringo Starr – nel camerino: paradossalmente, è sottoterra che si trova un po’ di luce, di respiro), frenetico: ci sono le canzone più selvagge del primo Bowie (“Hang On To Yourself”, “Ziggy Stardust”, “Watch That Man”, “Cracked Actor”, “Suffragette City”), ma non manca qualche brano più lento (un adattamento inglese da “La mort” di Jacques Brel) se non addirittura prolisso (l’assolo di chitarra fine a se stesso di Mick Ronson in “The Width of a Circle”). Il momento migliore è il medley di “Wild Eyed Boy from Freecloud” (fiaba macabra dall’album “Space Oddity”) e “All the Young Dudes” (inno generazionale donato da Bowie e Ronson alla band Mott the Hoople): micidiale uno-due incluso anche in “Moonage Daydream”, il meraviglioso documentario (termine molto riduttivo: è un’esperienza) con cui Brett Morgen ha riassunto la vita e l’opera del più grande artista del secolo scorso. Si chiude col momento “storico”: prima d’intonare “Rock’n’Roll Suicide” (in una versione struggente: ma è ancora meglio quella, roca e stracca, alla fine di “David Live”, registrazione di due concerti tenuti da un Bowie moribondo – da cui l’ironia del titolo – a Philadelphia nel luglio ’74), la rockstar “uccide” il suo alter ego, annunciando al pubblico (che reagisce con grida disperate: un fan gli salta addosso, provocandogli una risata nervosa e spaventata prima del tardivo intervento della sicurezza) che quello che si sta concludendo “è il nostro ultimo concerto”.
Doveva essere una liberazione, fu il preludio d’una nuova prigionia: gli anni e i dischi immediatamente successivi lo vedranno immedesimarsi in due nuovi alter ego, stavolta davvero spaventosi – Halloween Jack, il punk (anch’egli con pretese messianiche) protagonista di “Diamond Dogs”, un musical incompiuto (aperto dal grido “this ain’t rock’n’roll, this is genocide!”: un’altra passeggiata di salute) ispirato all’adorato George Orwell; e il Sottile Duca Bianco, dandy nazistoide che con Bowie condivideva le manie esoteriche, i deliri paranoici (spaventose le sue interviste televisive dell’epoca), la corporatura macilenta e soprattutto la causa di quanto sopra: la dipendenza dalla cocaina, che per Bowie all’epoca aveva ormai sostituito il cibo. Si salverà andando con Iggy Pop a Berlino, e registrando una trilogia (“Low”, “Heroes” e “Lodger”) col quale metterà a posto chi lo accusava di essere sì, bravo a scrivere testi, ma non a comporre musica.
Ancora adolescenti Kate Bush, i Duran Duran, David Sylvian e i suoi Japan (e, purtroppo, Madonna) se lo studiavano. Assai improbabile, anzi diciamo pure impossibile trovare, tra la musica pop di qualità successiva al ’73, qualcuno che non si sia ispirato a Ziggy Stardust o comunque a David Bowie.

Seguirà la marmaglia, da Achille Lauro che fa la parodia di quando Renato Zero faceva il “Bowie all’amatriciana” al baraccone vuoto (nessun pensiero, nessuna idea, niente canzoni, niente musica, soltanto pubblicità: fatta male eppure efficace), incolore e volgare dei Maneskin. Ma qui la responsabilità non è tanto di Bowie, quanto di un momento di particolare abbruttimento e devastazione culturale. Siamo sprofondati tanto in basso da vedere pletore di allieve della peggior intellettuale italiana che pubblicano manuali contro la bellezza (e già l’assunto basta e avanza per rigettare, senza alcuna forma di cortesia, tutto al mittente): Bowie ha profetizzato tanta spazzatura (una delle sue canzoni migliori, “Moonage Daydream”, ha anticipato di almeno quarant’anni l’orrenda paccottiglia genderfluid), ma questo cumulo di immondizia non lo ha creato lui. Bowie (che era coltissimo) leggeva Camille Paglia, una femminista intelligente, mica perdeva tempo con la Murgia.
Negli anni ’80, assieme alla compianta Tina Turner (che nel ’75 lo aveva sostituito nel ruolo della Acid Queen in “Tommy”, la rock-opera degli Who filmata da Ken Russell), Bowie era protagonista dello spettacolare clip pubblicitario d’una malsana bibita gasata; la stessa bevanda, in questa stessa estate, ha per testimonial Dita Von Teese (la modella che ha riportato in auge gli spettacolini “burlesque”) e Sfera Ebbasta, un trapper che non dovrebbe nemmeno farsi vedere in giro.
Dato lo squallore dell’attuale scena pop, riguardiamoci i filmati di repertorio. “Ziggy Stardust and the Spiders from Mars” (che fu pubblicato soltanto nel Natale 1983, dato l’iniziale sconcerto di Pennebaker nel constatare la scarsa qualità delle immagini e dell’audio – motivo per il quale furono cancellate le tre tracce con ospite il chitarrista Jeff Beck) torna nei cinema il 3 luglio 2023, cinquantesimo anniversario del concerto col quale Bowie diede pubblicamente l’addio a Ziggy Stardust; repliche il 4 e il 5.
Ricordo un Celentano schernito da Bowie, giustamente, per via di domande ai limiti del patetico su guerre e sofferenza nel mondo.