Un paio di settimane fa, sfogliavo un numero del Corriere della Sera: il solito D’Avenia, l’ennesima intervista a Fabio Volo su lui stesso, presentazione d’una collana scientifica curata da Burioni. Mi sono quasi rimangiato l’ostilità verso gli antidepressivi. Un paio di giorni dopo, il numero di sabato 9 gennaio mi ha riservato altrettanta gioia. Il lieto annuncio d’aver ingaggiato “lo scrittore Saviano” (il giorno dopo il centesimo anniversario dalla nascita di Leonardo Sciascia: o tempora, o mores…), e il rimando a pagina 11 per una lettera di Giorgia Meloni al direttore Luciano Fontana.
La signora teneva a specificare il proprio atteggiamento riguardo Trump e l’assalto a Capitol Hill della scorsa Epifania. Senza nominarlo, la Meloni rispondeva al delicatissimo Massimo Giannini (quello che per conto degli Elkann dirige – malissimo – La Stampa), che su La7 (emittente televisiva della quale è ospite fisso) si era detto “inquietato” dal fatto che, a differenza di Sua Pavidità Salvini, la Meloni non avesse rinnegato le passate simpatie trumpiane. Lo ha fatto Giorgia con una missiva piuttosto lunga, divisa in sei punti.
Commetteva, la Meloni, un errore di partenza: già il personaggio non merita che gli si dedichi tanto tempo; per di più, a chi ha l’arroganza e la maleducazione di pretendere da altri che giustifichino o addirittura rinneghino le loro opinioni, non si ribatte se non con uno sdegnato silenzio.
Al di là di ciò, in nessuno dei sei punti, né nella loro somma, la Meloni ha persuaso. Che Trump, al netto dei suoi (molti e gravi) errori sia comunque meglio del patetico Biden e della cricca satanica che lo manovra, è un’ovvietà; un attimo più convincente è l’attacco chi distorce il fenomeno Trump con l’etichetta banalizzante del “dittatore pazzo” (assieme a quello, altrettanto esasperante, del “pazzo esaltato”, il ritornello preferito dei “liberal” più gravemente analfabeti: insomma di quelli che da anni invocano Obama giusto perché gli è stato ordinato). Per il resto, in nessuno dei sei punti, così perentoriamente chiariti dalla madre della piccola Ginevra, si è trovato nulla d’interessante.
Rispondere a Giannini è già una perdita di tempo; piazzarsi a difesa della roccaforte Trump è tanto più deleterio. Combattere una battaglia persa in partenza può essere nobile, eroico; ma quella di Trump non è più nemmeno una battaglia. Il tycoon newyorkese non potrà più parlare di politica neanche al circolo del golf: l’imbarazzante “golpe” di mercoledì è stato per lui quel che Mani Pulite è stata per Craxi e ciò che l’imposizione di Monti a Palazzo Chigi è stata per Berlusconi: un rovescio che non ammette repliche, da parte di una forza incommensurabilmente superiore (la magistratura e la retroguardia del PCI contro Craxi, la BCE contro Berlusconi, il gruppo di potere del quale il Partito Democratico statunitense è soltanto una filiale contro Trump).
La squalifica a vita di Trump dalla politica che si è compiuta con la messinscena di Capitol Hill è soltanto la parte più evidente e immediata d’una demonizzazione delle destre sovraniste cominciata per reazione alla vittoria di Trump alle elezioni del novembre 2016 e all’avanzata delle destre europee sanzionata dalle elezioni continentali del maggio 2019. Il gruppo di potere che la conduce è enorme, potentissimo: si pensi solo che è stato capace di convincere milioni di individui che è stato giusto dare il Nobel per la Pace a Obama subito prima che bombardasse Nordafrica e Medioriente, che le questioni LGBT sono non un pasticciaccio psichiatrico ma una priorità per le agende politiche del mondo occidentale e che l’intolleranza isterica in loro nome è lecita, che le ondate migratorie sono non un flagello che getta in mare migliaia di disperate e fa invadere i paesi europei da orde criminali ma un fenomeno da approvare e accogliere, che la droga va liberalizzata e il consumo di psicofarmaci va promosso, che il cristianesimo è un ingombro e in fondo la pedofilia tanto male non è.
Che l’anno nuovo non sembri portare alla Meloni nuovi propositi, una nuova preparazione, nuovi studi e nuovi progetti è quantomeno preoccupante. No, ci sono soltanto schermaglie di retroguardia. Non un argomento, una sfida, un appello: nulla, soltanto il chiarimento del proprio rapporto con Trump (mai formalizzato) e col trumpismo (mai sussistito). Una minestrina, ravvivata soltanto dal solito colpo al cerchio e alla botte: non con i “fan violenti” di Trump, ma nemmeno con la cricca di Biden, in modo da accontentare Giannini che la richiama ma nemmeno scontentare i destrorsi celoduristi, quelli che, dopo la figuretta imbarazzante del tycoon che non riesce a gestire dei facinorosi che fanno una cretinata in suo nome, ancora insistono con “Donald n° 1” e banalità salviniane.
La boutade al Campidoglio degli “hillbilly” ha sepolto le ambizioni della destra USA per almeno il prossimo ventennio, e quelle dei sovranisti europei per almeno altrettanto tempo. Biden (se si è accorto di qualcosa), la Pelosi e la cricca infernale dei “dem” si fregano le mani; la Meloni reagisce assecondando un giornalista che le impone di giustificarsi. Se son rose…