Il 12 agosto 1949, a Glasgow, nasceva Mark Freuder Knopfler, da madre insegnante inglese e padre architetto ungherese. Cresciuto a Newcastle, da uno zio impara a suonare l’armonica e il pianoforte, e si appassiona alla musica dell’America profonda. Tormenta il padre perché gli compri una chitarra Fender, ma riceve una più economica Hofner. A 13 anni comincia così a scrivere per un giornale locale, in modo da guadagnarsi gli spiccioli con cui comprarsi dischi e biglietti per concerti. Adora i chitarristi del rock’n’roll americano: Chet Atkins, Hank Marvin, Albert Lee. Suona alla televisione locale, studia giornalismo, si laurea e si trasferisce a Londra, dove lavora a scuola e per dei giornali e continua a suonare, fondando prima i Brewers Droop poi i Café Racers.

In questa seconda band coinvolge il fratello David (chitarra ritmica) e il coinquilino John Illsey (basso). Nel 1977 si aggiunge loro il batterista Pick Withers (già nei Primitives, prima che Mal invadesse l’Italia), e in omaggio alla fame patita da Knopfler e soci nel loro appartamento londinese senza mobilio, la band è soprannominata Dire Straits: “terribili difficoltà”, “ristrettezze”. Incidono tre sessioni di demo, da cui otterranno il primo, eponimo album. Tra i brani registrati, con testi ispirati alla vita nei bassifondi di Newcastle e Londra e musiche composte pensando oltreoceano, una canzone che farà epoca: “Sultans of Swing”, manifesto del Knopfler-pensiero in fatto di musica – vi sono infatti presentate le sue due principali peculiarità: la tecnica chitarristica “fingerpicking” (Knopfler suona la chitarra senza plettro, colpendo le corde col pollice destro, “clawhammering, e pizzicando con le altre dita – e pur essendo uno scrivente mancino, suona la chitarra “da destro”, con la mano sinistra sulla tastiera), i brevi botta-e-risposta tra voce e chitarra, e infine gli assoli con i quali Knopfler irrompe sulla scena mondiale come grande virtuoso della sei corde; come in fatto di poetica – i “sultani dello swing” sono impiegati che la sera suonano nei pub i loro strumenti economici, aspirando alla gloria: non quella delle rockstar, ma quella del soprannome che si sono attribuiti.
La canzone comincia a circolare nelle radio, e col passaparola i Dire Straits, forti di un contratto con la Vertigo (Knopfler sarà, anni dopo, corteggiato dalla Virgin; ma quando Branson gli offrirà della droga per festeggiare l’accordo, il grande musicista – più che onorevolmente – rifiuterà il contratto), diventano un fenomeno: un’anomalia, nel Regno Unito che nel 1978 è monopolizzato dal ribellismo di facciata del movimento punk (di fatto, una creazione a tavolino dei discografici, come dimostra lo stupidissimo caso dei Sex Pistols) – infatti le classifiche britanniche non sono immediatamente conquistate dalle “terribili difficoltà” del quartetto di sultani. Lo sono invece quelle dell’Europa continentale, che portano in trionfo Knopfler e soci anche quando pubblicano, dopo pochi mesi, il secondo album: “Communiqué”, più ricco e vario del precedente (nonostante il singolo di lancio, “Lady Writer” – vendetta knopfleriana verso una ex: i due vedono in televisione l’intervista a un’affascinante scrittrice, e il gentiluomo di Glasgow rimprovera alla ragazza “tu invece non hai mai aperto un libro in vita tua…” – sia quasi una cover della sultanesca pietra miliare); particolarmente ammaliante il quadretto di “Single Handed Sailor”, scena notturna a bordo del Cutty Sark.

I Dire Straits si imbarcano su di un’altra nave – quella del primo tour mondiale (l’anno prima fecero da supporto ai Talking Heads); un loro concerto a Los Angeles conquista uno dei massimi ispiratori di Knopfler, Bob Dylan, che chiede loro di suonare in “Slow Train Coming”.
Mark Knopfler è lanciato alla conquista del mondo. Ormai è chiaro che “Dire Straits” è soltanto il nome del complesso che lo accompagna: è l’unico autore delle canzoni (il fratello ha collaborato a qualcosina del primo disco), e la principale attrazione dei loro dischi come dei loro concerti sono chiaramente le sue limpidissime capacità chitarristiche (che lui stesso sottovalutava…). Si affaccia sugli anni ’80 con un’opera di genio, “Making Movies”, forte di due canzoni che fanno la storia della musica leggera: “Tunnel of Love” e “Romeo & Juliet” (lo scandalo per la presunta omofobia di “Les Boys” non spodesta il disco dal suo posto d’onore sugli scaffali di molti ascoltatori).
“Making Movies” è un disco superlativo, e manda in deliquio critica e pubblico. All’entusiasmo generale non partecipa David Knopfler, che di fronte alla prospettiva di suonare in un altro album scritto integralmente dal fratello si è defilato prima della registrazione; lo si è prontamente sostituito con Hal Lindes.
Dopo due anni i Dire Straits, o meglio la band di Mark Knopfler, ribadiscono il loro successo col roboante “Love Over Gold”, il cui contenuto è ben rappresentato dalla saetta la cui foto campeggia sulla copertina. La formazione si è ingradita, è arrivato il tastierista Alan Clark e il batterista Terry Williams ha sostituito uno stanco Withers. Alla storia della musica pop il disco consegna “Telegraph Road”: epopea operaia (l’ennesima, stavolta ispirata a una strada nel Michigan) di quasi un quarto d’ora, che dopo una prima parte di cacofonia e patetismi approda ai trionfali quattro minuti finali, con dei dialoghi molto espressivi tra la chitarra di Knopfler, e batteria e tastiera dei nuovi arrivati. Knopfler riconoscerà che la prima parte è “un’assurda accozzaglia di suoni”, ma lo splendore della parte finale lo obbligherà a tenere la canzone nelle scalette dei tour successivi.

Il 1983 è l’anno del tour di “Love Over Gold”, oltre che d’un giocoso EP di quattro brani guidati da uno scherzo, “Twisting by the Pool”. Nel 1984 è pubblicato “Alchemy”, registrazione di due serate all’Hammersmith Odeon, impreziosita da una sontuosa “Once Upon A Time in the West” e da “Going Home” (brano strumentale per la colonna sonora del film “Local Hero”, sarà scelta dalla squadra di calcio del cuore di Knopfler, il Newcastle, per introdurre le partite casalinghe) affossata dalle versioni chiassose dei brani più rock e da una tediosa versione di “Sultans of Swing”.
Mark Knopfler intanto registra colonne sonore (appunto “Local Hero”, “Cal”) regala a Tina Turner il successone “Private Dancer” (inizialmente incisa dagli stessi Dire Straits per “Love Over Gold”; Knopfler deprecherà, condivisibilmente, l’assolo suonato da Jeff Beck per la Pantera del rock), dirige per Bob Dylan le registrazioni di “Infidels”.
Nell’ottobre 1984 Knopfler si ripresenta agli studi Power Station di New York, con una band che è diventata un reggimento: il secondo chitarrista adesso è Jack Sonni, con Guy Fletcher i tastieristi sono due, a Williams si accompagna Omar Hakim (il batterista preferito di David Bowie), in “One World” al basso interviene Tony Levin e Michael Brecker incide le celeberrime frasi di sassofono di “Your Latest Trick”. Le registrazioni finiscono nel febbraio 1985, e dopo il successo d’un singolo tanto semplice quanto bello (“So Far Away”), a maggio l’album “Brothers In Arms” invade i negozi di dischi di mezzo mondo.
Succede che Mark Knopfler va in un negozio d’elettrodomestici, i cui televisori sono puntati sulla neonata MTV, che ripete in continuazione il jingle “I want my MTV”. Un magazziniere, disgustato dalla facilità con cui i “fighetti” fanno soldi a palate con le canzoni pop, esclama: “questo non è lavorare!”; al che Knopfler, cantore della dignità proletaria ma geloso del proprio lavoro da artista, si ritiene offeso. Fosse così facile, suonare e comporre come fa lui… quell’energumeno sa quanta fatica gli costa? Convoca l’amico Sting, allora leader dei Police (per gli ascoltatori di pop più “nobile”, il duello fra la band di Gordon Summer e quella del valente chitarrista era un’alternativa seria a quello, imperante, fra Duran Duran e Spandau Ballet), e gli fa canticchiare “I want my MTV…” in apertura alla canzone con cui rivendica la dignità del mestiere di musicista serio.
È la storia di “Money For Nothing”, maxi-singolo accompagnato da uno storico videoclip che alterna cartoni animati, animazioni al computer e riprese dal vero, col quale Knopfler si vendica del malevolo scaricatore di televisori. Il singolo vende vagonate di dischetti (comincia l’epoca del CD), ma provoca due scandali: tra i puristi knopfleriani, choccati dal vedere il “guitar hero” prediletto imbracciare una Gibson Les Paul al posto della fida Fender Stratocaster biancorossa (al novero delle sue chitarre si uniscono intanto le Pensa, strumenti realizzati su misura per lui da un liutaio di New York); e tra la comunità gay, che non capisce che il “little faggot” pronunciato da Knopfler non è un pensiero suo, ma un insulto del suo antagonista verso un cantante visto su MTV.
Su nove canzoni, i singoli estratti sono ben cinque, tutti con successo enorme: “So Far Away”, “Money For Nothing”, la title-track (ispirata dalla compassione del padre del chitarrista per i soldati mandati a combattere nelle Falkland), “Walk Of Life” e “Your Latest Trick”.

“Brothers In Arms”, con la sua famosissima copertina (una chitarra resofonica stagliata sul cielo), demolisce alcuni record di vendite e ne stabilisce altri. Il suo successo rende obbligatorio un tour mastodontico (con tanto di partecipazione al Live Aid, la bruttissima kermesse pop “benefica” di risonanza mondiale; fra le decine di cantanti coinvolti, i Dire Straits sono tra i pochi – con David Bowie, Pretenders, Bryan Ferry e soprattutto Queen – a fare una figura egregia), che porta Knopfler sull’orlo di un esaurimento nervoso: non sopporta più la sua creatura, i Dire Straits da cantori della gente umile sono diventati una macchina dell’industria pop.
Stacca per un lustro abbondante, durante il quale non si riposa, anzi: si butta a capofitto nella musica che davvero ama.
Partecipa a sketch comici della BBC, suona a Wembley col grande amico Eric Clapton per i 70 anni di Mandela, continua a collaborare con Bob Dylan.
Per almeno due anni si diverte come un pazzo. Nel 1989 forma i Notting Hillbillies, super-gruppo dal nome geniale (“gli zotici di Notting Hill”) dedicati a un solo, bellissimo album, dal titolo autobiografico: “Missing… Presumed Having A Good Time”. Nel 1990 duetta col suo beniamino, Chet Atkins, in “Neck and Neck” (“manico e manico”… c’è anche un amichevole scambio d’insulti), chicca per cultori della chitarra.
Nello stesso anno, i Dire Straits (già convocati al Mandela Day) tornano con Clapton (questi in completo rosa, Knopfler invece arancio) nel concerto estivo di Knebworth. È il segnale per il ritorno in grande stile: nel 1991 esce quello che sarà (a parte il conseguente live) il loro ultimo disco, “On Every Street”. Le vendite sono sempre spropositate, ma Knopfler – circondato da una band che lui compreso raggiunge la dozzina, su cui spicca il chitarrista Phil Palmer (recentissimamente impadronitosi, assieme a una cover band italiana, del marchio “Dire Straits”, per un progetto di pessimo gusto: concerti a prezzi da big band, presentandosi al pubblico col nome della band di Mark Knopfler, suonando le canzoni di Mark Knopfler, ma senza Mark Knopfler sul palco…) – è palesemente intenzionato a liberarsi dei Dire Straits. Il maggior successo, “Calling Elvis” (con simpatico video ispirato ai Thunderbirds, telefilm di fantascienza anni ’60) è l’ennesimo pezzone di poderoso rock classico; il resto sono episodi di blues e country fatti con gran classe (“When It Comes to You”, “You & Your Friend”, “On Every Street”), o scherzi che non fanno ridere (“The Bug”, “Heavy Fuel”, “Millionaire Blues”, “Ticket to Heaven”, “My Parties”); ma si finisce alla grande, con la sontuosa “Planet Of New Orleans” (quanti musicisti pop saranno capaci di tanta eleganza nel resto degli anni ’90?).
La critica per la prima volta è perplessa, ma il pubblico accorre ai concerti (particolare successo hanno le tappe francesi) e Knopfler, esasperato da un tour che comincia nell’agosto 1991 e termina nell’ottobre 1992 (300 concerti per 7 milioni di spettatori), e lo lascia umanamente deluso (non riesce ad accettare che il carrozzone sia diventato così grande da fargli incontrare in fretta così tante maestranze senza riuscire a diventare amico di nessuno), è entusiasta soltanto di mettere la parola “fine” alla storia dei Dire Straits. Lancia nel 1993 il fiacco disco live “On The Night” e nel 1995 un più robusto “Live at the BBC”, risalente agli esordi.
Verso la fine del tour di “On Every Street”, accade l’incidente che allontana Knopfler dall’Italia. Terminate le tappe italiane, i Dire Straits lasciano l’albergo di Ventimiglia in cui erano alloggiati, ma il pulmino che li dovrebbe portare in Francia non compare. Restano così a pernottare sul ciglio dell’Aurelia… ritenendo David Zard, organizzatore dei concerti italiani, colpevole del fattaccio, il chitarrista scozzese farà voto di non suonare più in Italia – voto interrotto nel 2001, con gioia della sua folta colonia di ammiratori.
Nel 1996 il chitarrista “getta la maschera” e pubblica “Golden Heart”, il primo album a nome Mark Knopfler. Comincia una carriera dedicata alla musica “delle radici”: forte di una cultura musicale tanto vasta quanto profonda, Knopfler comincia un lungo viaggio, dispiegato in vari album, alla riscoperta della musica “da cowboy” ma non solo. Abbandonato il rockabilly da stadio dei Dire Straits, si riscopre più creativo che mai, e il suo primo disco contiene ben 14 tracce con pochissime cadute di tono. Comincia a unirsi la band dei fedelissimi (il cui primo nucleo sarà chiamato “the 96ers”): il Guy Fletcher che nei Dire Straits suonava le tastiere si converte alla batteria, e il secondo chitarrista e quel Richard Bennett che, con orrore dei knopfleriani duri e puri, convincerà il maestro della sei corde a utilizzare (di tanto in tanto)… il plettro. “Golden Heart” è lanciato dal singolo “Darling Pretty”, le cui prime note sono suonate dai Chieftains.
Dopo un paio di colonne sonore rimaste inosservate, il 2000 è l’anno di “Sailing To Philadelphia”: due duetti (la title-track con James Taylor e “The Last Laugh” con Van Morrison), ma soprattutto la bellissima, ultra-evocativa “What It Is”, racconto d’una notte tra i fantasmi del castello di Edimburgo. C’è anche “Speedway at Nazareth”, storia un po’ tragica d’una sgangherata comitiva di piloti da corsa, tra lacrimosi violini country, e un roboante assolo in crescendo che ne farà un cavallo di battaglia irrinunciabile per i concerti. Quasi nessun musicista pop nel 2000 sarebbe capace di scrivere una strofa del livello di “Speedway at Nazareth”; Knopfler si può permettere di lasciarla lì, nascosta fra le tredici tracce d’un album minore. Chapeau.
Le vendite non sono più quelle spaventose dei Dire Straits, ma un nutrito zoccolo duro d’estimatori permette a Knopfler di essere ascoltato ben al di fuori d’un pubblico di nicchia. Il menestrello scozzese può così permettersi di procedere senza patemi d’alcuna sorta i suoi viaggi alle origini del “southern rock”, e anche più in profondità.
Torna anche a suonare in Italia, deposto il rancore per l’incidente di Ventimiglia. Nel 2002, la poetica degli “ultimi” mostra un po’ la corda: “The Ragpicker’s Dream” è un disco decisamente bello, nonostante il pauperismo knopfleriano sia ormai troppo ripetitivo. Negli annali resta il singolo d’apertura, “Why Aye Man”, sulla fierezza dei proletari dell’Inghilterra settentrionale costretti dalle manovre thatcheriane a cercare lavoro in Germania; con le sue esclamazioni dialettali e la sua chitarra incalzante, assieme alla quasi gemella “What It Is” formerà un formidabile dittico nei concerti.
Nel 2004 le storie dell’America profonda tornano prepotentemente con “Shangri-La”, robusto tributo ai punti di riferimento di Knopfler e del suo immaginario, tra motopescherecci e ambulanze, tra cantanti e pugili, tra slot-machine e Cadillac, trascinato dal suo ultimo singolo di successo: “Boom, Like That”, travolgente biografia del feroce fondatore di McDonald’s, Ray Kroc (“that’s Kroc with a K / like “crocodile” but not spelt that way”), tra chitarra e giochi di parole.
Il 2006 sarà l’anno di un album e un tour con Emmylou Harris: “All The Roadrunning”, altra elegante elegia dell’America profonda, operaia e depressa. I “knopfleriani” più fanatici non gradiscono che il beniamino spartisca la scena con un’artista misconosciuta al di fuori degli USA (dove è un’istituzione): ma la “ragazza triste del Kentucky” è una splendida signora del country, la cui compagnia giova a un Knopfler che, con una mano rovinata da un incidente in motorino (colpa della manovra superlativamente imbecille di un’automobilista), diminuisce il minutaggio degli assoli ma non la qualità lirica e compositiva. La tappa veronese del tour con la Harris si rivela ottima occasione per duettare “Romeo & Juliet”.
L’anno dopo Knopfler torna da solo con “Kill To Get Crimson”, occasione d’un altro tour, con scalette più rockeggianti e spazio ai classici dei Dire Straits. “Get Lucky” nel 2009, “Privateering” (20 canzoni su 2 cd) nel 2012, “Tracker” nel 2015 e “Down the Road Wherever” riscuotono altre meritate lodi dalla critica e vendite discrete, aggiungendo soltanto quantità al repertorio “root rock” e folk del Nostro, tanto proficuo in quanto a tracce quanto placidamente assestato su di una produzione sempre uguale a se stessa. Intanto, i suoi ex turnisti fanno cassa con i ricavi della bieca operazione Dire Straits Legacy, profittando di qualche ascoltatore ingenuo che va ai “concerti dei Dire Straits” senza Mark Knopfler, non rendendosi conto che il concetto “Dire Straits” al di fuori di Mark Knopfler non è dato.
Mark Knopfler è una figura colossale nel mondo pop, non soltanto per essere stato protagonista della musica rock. È un’anomalia, una splendida macchia.
Ha avuto successo sia alla fine degli anni ’70, quando le rockstar ancora dovevano essere (stucchevolmente e stupidamente) “maledette” per essere notate; che negli anni ’80, quando dovevano essere “glamour” e vistose, ascoltate più per i lustrini che per la musica.
Noto per essere gentile e modesto, con la sua immagine pulita è piombato in una scena musicale nella quale era obbligatorio strillare ed essere più cafoni del possibile; ragazzo secco e dinoccolato, col naso a patata esibito sotto una chioma presto diradata (maturando, diventerà un bel signore), è stato una superstar nell’epoca dei divi musicali adatti più alle copertine delle riviste che allo studio di registrazione, e si è fatto apprezzare per le doti artistiche prima che per la presenza scenica (comunque carismatica). In una scena, quella rock, che già agli albori era priva di argomenti, ha raccontato tantissime storie, inscenandole con la cura del provetto cantastorie, e arricchendole – soprattutto quelle più meste e umili – con una loro grandezza e tanta poesia.