Quando vigeva il colonialismo, lo sfruttamento coinvolgeva una pluralità di soggetti, era limitato nello spazio e moderato nell’intensità. Perché i colonizzatori andavano numerosi a stabilirsi nei territori sottomessi, elevando così, se non altro per induzione, le condizioni dei luoghi e degli indigeni.
Con la globalizzazione, invece, i capitali hanno preso il posto degli Stati, i fondi quello delle Nazioni, gli azionisti quello dei cittadini. Lo sfruttamento e’ diventato universale ed intensivo.
Con tutti i suoi limiti e difetti nel campo della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia l’epoca coloniale ha segnato un oggettivo progresso anche per coloro che vi erano soggetti. Molti di loro stavano molto meglio allora che non oggi.
La globalizzazione, invece, aggredisce tutta l’umanità, proletarizza i popoli, impoverisce e disgrega le Nazioni. Degrada il lavoro di valore e dignità, provoca concorrenza al ribasso, emargina intere generazioni, marcando ovunque abissali differenze e distanze sociali tra minoranze sempre più ristrette e maggioranze sempre più vaste. Uomini e territori, persone e cose si fanno sempre più merce, da produrre a costi sempre più bassi per trarne profitti sempre più alti. La tanto decantata libera circolazione, nonché
emancipare gli ultimi, fa regredire i primi. Finanche gli operai bianchi della maggiore potenza economica del mondo, sono rimasti senza lavoro e in povertà.
Perché la globalizzazione delocalizza verso le aree arretrate e depresse, dove manodopera, competenze e servizi costano meno e la corruzione elude e scavalca le salvaguardie della salute, dell’ambiente, della legalità. Ne discende inevitabile nel lungo periodo un declino tecnico, un irreversibile inquinamento ambientale, una progressiva intossicazione dell’umanità.
Bisogna recuperare i fondamentali della civiltà e della geopolitica: la terra dei padri, le tradizioni religiose e culturali, i propri ordinamenti sociali e giuridici, le proprie identità e i propri confini, che non sono “muri”, sono pareti, come quelle di casa, che ci raccolgono, ci riscaldano e rassicurano.
Anche prima della globalizzazione gli uomini e le merci circolavano, al di qua e al di là degli oceani, il commercio prosperava nello scambio delle rispettive eccellenze e diversità, con vantaggio per tutti e impulso alle rispettive coltivazioni e produzioni.
Un solo strumento non esaurisce tutta la musica, ne’ fa buona musica una sola orchestra. Una parte di poco è molto di più che niente di tutto. Niente hanno i popoli delle enormi ricchezze in mano a pochi oligarchi della finanza e ai loro adepti, politici e non.
Dobbiamo riprenderci la nostra patria, i nostri confini, le nostre risorse, le nostre attività. Dobbiamo tenere nelle nostre mani la nostra libertà, la nostra economia, la nostra sicurezza. E trattare e scambiare alla pari con gli altri.
Chiamatelo come volete: destra, fascismo, populismo, poco importa. Importa che i popoli hanno cominciato a capire che il solo modo di evitare di dare tutto a pochi sta nel riprendersi ciascuno il suo.
1 commento
Leo maladorno says:
Gen 26, 2017
Nell’ambito di una sacrosanta rivalutazione del colonialismo ( e di quello italiano in particolare, tenuto conto della concreta e percettibile missione civilizzatrice che fu svolta ) non dimenticherei ed anzi rivaluterei un film come ” Africa Addio ” di Jacopetti.
Ai tempi fu messo al bando dal solito sinistrismo culturale saccente e traditore, eppure ben fotografava la fine di una epoca che sarebbe stata rimpianta ed anticipava lo sfacelo, i drammi e le tragedie che ne sarebbero seguite.
Il film è ancora visibile su you toube.